Visto che la stiamo facendo a Firenze, in diversi mi hanno
chiesto un giudizio su “La Rondine”. E già è sospetto che mi si chieda un
giudizio, nessuno mi ha mai chiesto un giudizio su “La Bohéme”.
A parte le due opere giovanili, che sarebbe ingeneroso paragonare
alle opere mature, Rondine è quella che ha avuto meno fortuna ed anche la meno
riuscita. E’ un’opera nata storta e, con tutto lo sforzo di Puccini, non è
riuscito a raddrizzarla strada facendo. Lui che su certi soggetti ci rimase a
pensare per anni senza farne nulla, accettò un contratto a scatola chiusa con
due impresari viennesi solo perché attratto dal compenso e per vendicarsi dei
dispetti di Tito Ricordi che cercava di fargli un po’ le scarpe per favorire
Zandonai. Arrivato da Vienna il canovaccio che Adami avrebbe dovuto sviluppare
come operetta, si rivelò soggetto assai esile anche per un’operetta e dovette
essere adattato infinite volte. Ringraziamo Puccini e Adami per averne comunque
cavato qualcosa – Adami disse di aver scritto l’equivalente in versi di sedici
atti per metterne insieme tre che passassero il vaglio di Puccini.
Penso anche che la vicenda ci sia incomprensibile perché
abbiamo perso il senso dell’ambiente nel quale si svolge. L’ambientazione non è
casuale: la Parigi del secondo impero, che era una città dalla vitalità
inarrestabile, fra le cui stelle erano le mantenute della classe dirigente
(“Les grandes horizontales”, le chiama Virginia Rounding nella sua monografia
che è un libro interessantissimo). Le mantenute erano il cosiddetto “demi-monde”,
termine inventato da Dumas figlio, un mondo lussuoso ma non rispettabile e
parallelo a quello della buona società. Il modello di Magda potrebbe essere per
esempio Apollonie Sabatier detta “La Présidente”. Mantenuta per quattordici anni
da un importante industriale belga, era una donna colta e intelligente, non
priva di una certa saggezza e maestra dell’understatement, amante delle arti e
acquerellista essa stessa. Alle sue cene informali la domenica alle sei (come
la cena in casa di Magda nel I atto della Rondine) partecipavano le migliori
teste di Francia: Flaubert, Téophile Gautier, Berlioz, de Musset, Manet. A lei
dedicò poesie di amore perduto Baudelaire, la statua di lei in preda ad una
fitta di orgasmo scolpita da Clésinger si trova ora al museo d’Orsay. – Statua
ricavata da un calco in gesso al naturale, sottile maniera del suo amante di
esibirla a tutto il mondo. - A una di queste cene fu visto arrivare Gautier
vestito in pelliccia, perché era di ritorno dalla Russia e dalla stazione era
andato direttamente a casa della Sabatier senza passare neanche da casa sua. Il
punto della vicenda di Rondine é: queste fanciulle del secondo impero, da una
parte perdute e da quell’altra donne indipendenti, ricche e intelligenti più
delle dame della migliore aristocrazia, potevano essere le amanti degli uomini
facoltosi, ma una volta entrate nel circolo del demi-monde non ne potevano più
uscire. Quelle che riuscirono a farsi sposare e a tornare nei ruoli delle donne
per bene, per esempio la Péllissier che sposò Rossini, si possono contare sulle
dita.
Non è questione che il regista sposti o meno l’ambientazione
dello spettacolo: semplicemente noi non percepiamo più questo retroterra e la
vicenda ci diventa incomprensibile a livello istintivo. Va bene, lei è una
donna perduta, ma perché fare tante storie? Dopo tutto Ruggero la perdona, no?
– E invece no. Puttana una volta, puttana per sempre. Non perché lo dica
Ruggero ma perché questo sarebbe il giudizio sociale universale: davvero
Ruggero sarebbe rovinato se la sposasse, scenderebbe l’infamia sulla onesta
casa dei suoi vecchi. Curiosamente Piave nella Traviata – un’altra mantenuta
come la Sabatier, solo vissuta quindici anni prima – riesce a trasmettere
l’essenza di questo dramma. Adami e Puccini lo danno per scontato e noi non
riusciamo più a capire l’opera. Capirla sotto la pelle, intendo - parteciparla.
Non è il caso che il momento del finale dove lei tenta di spiegare questa cosa
sia il più infelice ed inefficace, sia nell’aspetto dei versi che nella musica.
Dopo di che, la meno riuscita delle opere di Puccini è
sempre meglio delle migliori di Alfano o Zandonai che erano il motivo di
contendere con Tito Ricordi. A me la Rondine non dispiace di sentirla; anzi, io
non mi stanco mai di sentire Puccini, Rondine inclusa. Se ve la facessero
sentire senza dire di chi è, potreste pensare che un buon 70% della musica avrebbe
potuto scriverla, uguale uguale, Ravel. Non per nulla Ravel raccomandava ai
suoi allievi di studiare Puccini. Nella Rondine, una partitura imbottita di
valzer francesi, c’è un unico valzer viennese, dieci minuti dopo l’inizio del
secondo atto. Un valzer con una semifrase che si scheggia in quinte acute taglienti,
come un bicchiere di cristallo che vada in cocci. Puccini scrive mentre la
Vienna che aveva gli commissionato si è infilata nell’avventura della guerra
mondiale, l’era dorata dell’impero si sta sgretolando dall’interno. Lo stesso
messaggio de La Valse di Ravel; credevo fossero contemporanee, sono andato a
controllare e La Valse è stata scritta pochi anni dopo La Rondine. Puccini
c’era arrivato prima ancora che la guerra finisse.
Abbiamo imparato dai tre grandi libretti di Illica e Giacosa
che il valore di un libretto dipende sia dalla sceneggiatura – la sequenza
della vicenda nelle sue sfumature – che dalla verseggiatura vera e propria. La
sceneggiatura di Rondine non è felice e probabilmente Adami aveva troppi
vincoli per poterla cambiare. Ma nemmeno la verseggiatura è un gran che, e
questa è tutta responsabilità sua: nell’accordo originale con i viennesi, loro
avrebbero scritto la sceneggiatura, Adami l’avrebbe verseggiata e loro
l’avrebbero ritradotta in tedesco. Alla fine La Rondine da operetta è diventata
opera ed il lavoro l’ha fatto tutto Adami. Nei momenti in cui Adami azzecca dei
bei versi (per esempio, quando i due innamorati scrivono il loro nome sul marmo
del tavolo e lei commenta “Qualche cosa di noi che resta qua”) anche Puccini
trova immediamente l’accento poetico. Ma a Adami manca la grande poesia di
Giacosa, centra il bersaglio solo occasionalmente e anche l’ispirazione di
Puccini ne rimane diminuita. Ad essere spettacolari, nel testo di Adami, sono
le didascalie, a cominciare da quella di Magda abbattuta, sfibrata, lasciata
sola su una sedia:
“…ora la sala è deserta. Nel giardino si sono spente le
luci. I primi chiarori freddi dell’alba non illuminano che tavoli in disordine,
fiori sparsi e sfogliati per terra, bicchieri rovesciati. Tutta l’infinita
tristezza di una festa passata è in queste prime luci mattutine…”
Si rimpiange quasi che Puccini non abbia fatto come Strauss,
che nel Rosenkavalier per sbaglio mise in musica anche un paio di didascalie.
C’è poi la questione delle diverse versioni del finale. Che
il finale fosse insoddisfacente lo percepiva anche Puccini. Nella prima
versione (Montecarlo 1917), che è quella che stiamo facendo a Firenze, il
tenore Ruggero è un personaggio di eccezionale piattezza psicologica. Un vero e
proprio salame; si potrebbe persino pensare, ironicamente, che Magda lo
abbandoni non per tutelare l’onorabilità della sua famiglia, ma perché
terrorizzata dalla prospettiva di una vita in campagna con una suocera
lacrimogena in casa, allevando una nidiata di bambini e andando a letto con le
galline tutte la sere. - Da Vienna fecero notare a Puccini che nessun uomo
nella realtà si comporterebbe come Ruggero, a maggior ragione un personaggio
che dal palcoscenico dovrebbe destare l’interesse del pubblico. Per cui,
seconda versione (a Palermo in italiano e a Vienna in tedesco), fu escogitato
un finale diverso: Lisette e Prunier vengono a riprendersi Magda che scrive una
lettera d’addio, la lascia sul tavolo e se ne va. Il tentativo di fare una
storia differente utilizzando al massimo la musica già scritta per altre parole
e situazioni non ebbe successo e Puccini scrisse ancora un terzo finale: prima
Rambaldo viene a cercare espicitamente di riprendersi Magda, poi a Ruggero
arriva una lettera anonima che gli apre gli occhi e caccia via Magda. Sarebbe
questa la versione definitiva di Puccini? Può darsi, se non fosse che questa
terza versione di fatto non fu mai rappresentata né vivente Puccini né prima
della seconda guerra mondiale; e nella guerra la musica dell’orchestra andò
distrutta in un bombardamento. Si è salvato solo lo spartito per pianoforte,
del quale fu tirato un numero limitatissimo di copie; oggi questa versione può
essere solo ricostruita (a Torino hanno fatto orchestrare le pagine mancanti a
Lorenzo Ferrero) ma in originale è persa per sempre. Per cui di solito si fa la
prima versione di Montecarlo nella quale il tenore è un salame ma almeno il
soprano ha una sua completezza musicale e psicologica.
Sull’autografo di Rondine c’è un piccolo giallo: che fine ha
fatto? Tutti gli autografi di Puccini sono rimasti nelle cassaforti di Ricordi
(oggi sono alla biblioteca di Brera che li conserva per conto di Ricordi).
Ricordi però non volle pubblicare la Rondine che poi fu presa da Sonzogno. La
versione ufficiale è che l’autografo sia andato distrutto nel bombardamento
della sede della Sonzogno di cui sopra; ma non tutti ci credono. La prima
italiana de La Rondine fu a Bologna nel 1917. Dopo la recita, Puccini donò come
ricordo otto pagine dell’autografo alla biblioteca del locale Liceo Musicale;
il che vuol dire che l’autografo era rimasto nella sue disponibilità e non era da Sonzogno. Per cui si ipotizza che, privato delle otto pagine e magari di
qualche altra pagina regalata, l’autografo sia ancora nascosto negli archivi
della famiglia.
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