29/10/17

Su vostra richiesta: Fosca, la Puccini-non-Puccini

Nella vita di Puccini c’è un personaggio che sentiamo parlare di rado, e di solito passa inosservato: Fosca Gemignani. Non è un personaggio particolarmente simpatico e anche i biografi non ne trattano molto. E’ la figlia di Elvira con il primo marito Narciso Gemignani; Elvira va sposa a neanche venti anni il 19 febbraio 1880 e il 5 aprile nasce Fosca: sei settimane dopo il matrimonio. Nel 1885 nasce un altro bambino, Renato. Gemignani era un commerciante di drogheria all’ingrosso, economicamente piuttosto agiato, ma anche appassionato di musica, cantante dilettante, organizzatore di concerti e sicuramente conosceva Puccini. Si dice che Elvira andasse a lezione di pianoforte da Puccini, fatto sta che nel marzo 1886 rimane incinta di lui; e fuggirono insieme da Lucca. Il Gemignani prese il tradimento con una certa sportività, ben inteso a patto che Elvira si facesse vedere a Lucca il meno possibile. Trattenne con sé il figlio maschio e lasciò Fosca alla madre; secondo qualcuno avrebbe volentieri tenuto tutti e due ma la bambina senza la mamma era caduta in una gravissima depressione e si decise di lasciarla andare. Gemignani condusse la sua vita senza rimpianti, anche se sembra che lui ed Elvira litigassero periodicamente; morirà nel 1904 probabilmente per i postumi di un pestaggio da parte di un marito che aveva cornificato.

Ho già scritto come questo sia un periodo durissimo per Elvira: marchiata come adultera, con un figlio illegittimo di Puccini (Antonio detto Tonio, nato il 22 dicembre 1886), malvista spesso anche dai parenti presso i quali si deve rifugiare quando le misere entrate di Puccini non permettono di vivere tutti insieme. Fosca da anziana signora ricordava ancora di quando da bambina veniva mandata a letto presto per risparmiare la cena. Questa famiglia irregolare – Giacomo, Elvira, Fosca e Tonio – se la vide piuttosto brutta fino al successo di Manon Lescaut (1893) che finalmente portò entrate regolari e la possibilità di riunire tutti sotto uno stesso tetto, o meglio più di uno: da una parte a Torre del Lago, non ancora nella villa che poi fu la dimora preferita di Puccini, o a tratti a Milano dove Puccini ebbe sempre un appartamento in affitto, prima in via Solferino e poi in Via Verdi su un lato della Scala. Un motivo di scontento perenne fra Elvira, Fosca e Puccini fu proprio Torre del Lago: le donne preferivano di gran lunga stare a Milano dove la vita era più piacevole, piuttosto che lontano dal mondo di faccia ad una palude.

Puccini accetta Fosca come una figlia, lui la chiamava “Beo”, lei lo chiamava “babbo”,  il che ha fatto pensare a qualcuno che davvero fosse figlia sua. Io non ci credo perché questo costringerebbe ad aprire scenari difficili da valutare: per esempio, se come tutto lascia pensare il matrimonio fra Gemignani ed Elvira serviva a riparare un fatto compiuto, come mai Gemignani avrebbe dovuto sposare in tutta fretta Elvira se non era incinta di lui? – Qualcuno avanza l’ipotesi che anche Renato fosse figlio di Puccini, e questo potrebbe essere più verosimile.

Nel 1900 Fosca era una signorina in età da marito. Apprendiamo da una lettera di Puccini che aveva almeno due spasimanti: un violoncellista squattrinato ed un tenore, Salvatore Leonardi detto Toto, e Puccini era arrabbiato con lei perché preferiva il violoncellista a Leonardi che, figlio di una baronessa e di un magistrato, almeno sarebbe stato in grado di mantenerla. La lettera è abbastanza pesante e si indovina che dietro ci devono essere state discussioni familiari intense: qui Puccini svolge funzione paterna, e anche con una certa foga. Leonardi smise di cantare molto presto, divenne prima impresario e poi imprenditore di un certo successo, e fu lui a sposare Fosca nel 1902. La coppia risiedeva principalmente a Milano in un appartamento lussuosissimo in via Morone angolo via Manzoni, per le visite a Torre del Lago Fosca aveva acquistato un villino separato che poi era lo stesso (ex proprietà Grottarelli) dove aveva vissuto con la famiglia Puccini prima che questa acquisisse la villa grande che fu la residenza definitiva del maestro. Appena Fosca lascia casa Puccini, inizia una certa corrispondenza, per lo più su argomenti di natura familiare e per noi di scarso rilievo. Puccini lamenta che una volta uscita Fosca di casa la vita è più difficile. Ricordiamo che nel 1902 siamo in piena crisi per l’amore fra Puccini e Corinna, può anche darsi che il precipitare della relazione fra Puccini ed Elvira abbia indotto Fosca a sposarsi per uscire da una famiglia sempre più tormentata dall’infedeltà di lui e dalla gelosia di lei, ormai giunte entrambe a livelli patologici. Fosca, fino a quando è rimasta in casa, dev’essere stata una sorta di ammortizzatore tra le reciproche incomprensioni, che viene a mancare proprio quando la crisi coniugale diventa più acuta.

Il matrimonio di Fosca con Leonardi non fu dei più felici. Punteggiato dalle infedeltà di entrambi, finirono in pochi anni con il separarsi tacitamente e condurre ognuno la propria vita. Ebbero tre figli, Franca, Elvira ed Antonio. Elvira, che ovviamente prendeva il suo nome dalla nonna, ebbe da Puccini il soprannome “Bicchi”; crebbe come una piccola principessa nell’ambiente della Milano bene – i Crespi, i Visconti, i Toscanini che visitavano regolarmente il salotto di Fosca - con il tempo la piccola Elvira assumerà lo pseudonimo “Biki” e aprirà un celebre atelier di moda, la cui cliente di punta sarà Maria Callas.

Ci fu una grave rottura fra Puccini e i due Leonardi, Fosca e Toto, in coincidenza della vicenda del suicidio di Doria Manfredi: per alcuni anni furono dichiarate persone non gradite in casa Puccini e in generale a Torre del Lago. Inizialmente, appoggiandosi ai frammenti di lettera che Vincent Seligman aveva resi pubblici nella corrispondenza di sua madre, si sapeva che Puccini lamentava che i parenti di Elvira ne avessero eccitato la gelosia nei confronti della povera domestica Doria; ma non si sapeva quali fossero questi parenti. Con l’emergere di altra corrispondenza, fra cui due lettere alla Seligman citate solo parzialmente da Vincent, ora finite nella disponibilità della Library of Congress e leggibili per intero, l’ipotesi più plausibile è che a montare la rabbia di Elvira contro Doria sia stata proprio Fosca. Valleroni poi, che scrive nel 1983 e raccoglie le memorie tramandate dal popolo di Torre del Lago, dà questa cosa per sicura. Fosca intratteneva una relazione con Guelfo Civinini, che frequentava casa Puccini come secondo librettista de “La Fanciulla del West”. La povera Doria Manfredi li avrebbe involontariamente sorpresi in un momento intimo, e sarebbe diventata suo malgrado un testimone scomodo da far sparire di casa. – Puccini era sicuramente a conoscenza della relazione, forse potrebbe essere stato informato proprio da Doria, o forse potrebbe averla scoperta da solo. Sta di fatto che Civinini viene buttato fuori casa e la sua carriera di librettista inizia e termina con La Fanciulla del West. In una delle lettere della Library of Congress Puccini anzi lamenta l’orrore di dover mettere in musica un libretto scritto da una persona a cui addossava parte della responsabilità della morte di Doria. Schickling è a conoscenza di un dossier di Puccini in una cartellina intitolata “Fosca – Civinini”; forse un dossier simile a quello che compilarono gli investigatori che sorvegliarono la Cori, ma è di proprietà di un collezionista privato che non ne rende noto il contenuto.

Per cui Fosca avrebbe eccitato la gelosia di sua madre contro la domestica per ottenerne il licenziamento. Puccini si avvede subito di questa cosa, tanto che sempre scrivendo alla Seligman – la vicenda Manfredi si sta facendo grave ma non è ancora precipitata - dice di aver chiuso i rapporti con la famiglia Leonardi (Fosca e suo marito). Come sappiamo, la gelosia di Elvira crebbe fino ad un livello patologico, andò a diffamarla presso la madre, il prete, gli abitanti di Torre del Lago, insultandola pubblicamente e minacciandola. In breve Puccini ed Elvira si trovarono in rotta e la convivenza divenne impossibile. Il Puccini parte per Roma, Hotel Quirinale, ed Elvira per Milano. Il 23 gennaio 1909 Doria si avvelena con tre pastiglie di sublimato corrosivo: il veleno causa emorragie inarrestabili ed altro non si può fare che attendere la morte della ragazza, che giunge nella notte del 28 gennaio.

Esiste una testimonianza in forma di lettera da Carlo Marsili, figlio di Nitteti sorella di Puccini a Ramelde, altra sorella di Puccini. Il giovane Carlo fu spedito da Ramelde a Roma per sorvegliare Puccini che era al colmo dell’abbattimento: si temeva un gesto irreparabile. Un dettaglio ci fa sorridere, nonostante tutto: un Puccini irriconoscibile, invecchiato di anni in pochi giorni, che sospirando e piangendo e percorrendo nervosamente la camera d’albergo si ingozza di dolci e paste nella speranza di morire di diabete. Un dettaglio, invece, è straziante: alla notizia della morte di Doria, Fosca ed Elvira a Milano ne ridono perché si sono finalmente tolte di torno l’impicciona.

All’inizio del 1910 sappiamo che Fosca è malata a Milano, ormai era completamente separata dal marito, Elvira va ad assisterla e rimprovera Puccini per la sua freddezza nei confronti della figliastra (ma alla fine Puccini si risolve a scrivere anche a lei). Qualche mese dopo Fosca cerca di riallacciare il rapporto con il patrigno scrivendogli mentre si trova a New York, ma Puccini non ha ancora dimenticato. Per il 1912 troviamo Fosca riconciliata con Puccini, perché accompagna lui ed Elvira in un viaggio a Parigi.

Adami ci dà notizia della presenza di Fosca e di Leonardi alla prima lettura, con esiti disastrosi, della stesura iniziale del libretto del primo atto di Turandot. Successivamente, abbiamo notizia di Fosca al capezzale di Puccini nella clinica di Bruxelles. A sentire Vincent Seligman, figlio di Sybil, le cose andarono così: solo Tonio e Fosca erano a conoscenza della diagnosi di tumore che imponeva una cura con il radio dall’esito incerto; a Puccini non fu detta tutta la verità, e neanche ad Elvira che non stava troppo bene neanche lei. Quando Puccini parte il 4 novembre 1924 per il viaggio della speranza a Bruxelles lo accompagna Tonio, Elvira ha la bronchite e Fosca rimane ad assisterla. Da Londra arriva a Bruxelles la vecchia amica Sybil, che presa coscienza della gravità della situazione scrive a Fosca di venire immediatamente.

Narra Vincent Seligman che nel pomeriggio del 28 novembre Fosca si trova al letto del maestro e inizia a scrivere, a matita, una lettera a Sybil dove annuncia che, nonostante l’operazione sia stata pesantissima, ci sono speranze di guarigione. A metà foglio si alza per andare in corridoio a cercare nella borsa l’indirizzo di Sybil e in quei due minuti che rimane fuori della stanza, Puccini ha un collasso cardiaco. Quando rientra è praticamente moribondo. Morirà il giorno successivo e Sybil riceverà la mezza lettera scritta a matita insieme con l’annuncio della morte.

Fosca rimane vedova nel 1938, nella stessa maniera in cui era rimasta vedova sua madre. Il Leonardi, che viveva solo in casa con una domestica, viene trovato malridotto e sanguinante nel suo letto e muore per le lesioni riportate dopo pochi giorni. Dopo tre anni verrà casualmente scoperto l’autore del pestaggio; il movente ufficiale fu fatto passare per rapina, probabilmente per proteggere il buon nome di Fosca e del Leonardi, in realtà si trattava della vendetta del fratello di una operaia che il Leonardi aveva tentato di insidiare.

Racconta il Marek, che scrisse una ottima biografia di Puccini in inglese nel 1952 ricercando le fonti originali – tuttora il suo libro è l’unica fonte per il testo di alcune lettere andate successivamente rubate – che facendo ricerche su Puccini nella Milano del dopoguerra ancora devastata dai bombardamenti, le sacerdotesse del culto pucciniano erano due: Rita Dall’Anna, la vedova di Antonio Puccini, che forse il maestro non lo aveva neanche conosciuto, e Fosca Leonardi che viceversa aveva abitato in casa sua da quando aveva cinque anni. Per qualche motivo fra i pucciniani si erano formate due fazioni, i foschisti e i ritisti, apparentemente le due donne, pure aperte alla ricerca e disponibili agli studiosi, erano d’accordo solo su una cosa: la vicenda di Doria Manfredi non doveva essere ricordata.

La vicenda di Fosca ha un epilogo strepitoso. Da una vita Fosca era l’amante del suo padrone di casa di via Morone, il senatore ed industriale Mario Crespi. Nel 1952 (Fosca aveva quindi 72 anni) se lo sposa. Crespi condivideva con due fratelli la proprietà del Corriere della Sera, e sembra che Fosca abbia causato non pochi litigi fra i tre fratelli per le sue intromissioni nella gestione del giornale. Fosca muore nel 1968 a 88 anni.



27/10/17

Puccini e Marek

Una storia pucciniana curiosa è quella di George Richard Marek (1902-1987).  Viennese di nascita, emigra con tutta la famiglia negli USA a 18 anni e diviene cittadino americano a 23. Pubblicitario e giornalista, diventa successivamente un funzionario della RCA. Nel primissimo dopoguerra gira l’Italia a caccia di souvenir musicali, in particolare pucciniani, in funzione di un libro che intende scrivere e che poi uscirà nel 1951. Racconta Marek di un terribile viaggio lungo la costa tirrenica, usando benzina comprata al mercato nero per mandare avanti un’auto che ogni pochi chilometri si guasta. Passando da Viareggio nota il cartello di Torre del Lago e gli prende l’estro di cercare la villa di Puccini. La trova semiabbandonata, il giardino incolto, nel salotto tre dita di polvere ma per il resto lasciato come se il maestro fosse partito il giorno prima. Qualche vandalo, probabilmente militari tedeschi, ha spezzato le vetrate della cappella che funge da mausoleo.
Arrivato fortunosamente a Milano va a ricercare nella biblioteca del conservatorio, ancora parzialmente danneggiato da un bombardamento, i compiti di composizione di Puccini con segnate le annotazioni del suo maestro Ponchielli. Raccoglie le confidenze delle due vestali che vegliano sulla memoria del maestro: Rita Dall’Anna, recente vedova di Antonio il figlio del maestro – a dire il vero non si sa nemmeno se l’abbia conosciuto, quando Puccini muore Rita ha venti anni; e Fosca Gemignani Leonardi, che si lascia volentieri chiamare Fosca Puccini, che almeno nella casa di Puccini è cresciuta. Le due donne non vanno sempre d’accordo – dietro di loro ci sono quasi due partiti di ritisti e foschisti – ma su una cosa tutti sono d’accordo, di non voler nemmeno sentir parlare del caso Doria Manfredi. Tutte i libri pubblicati in Italia non ne scrivono affatto, la raccolta di lettere pubblicata da Adami salta del tutto le annate 1909 e 1910 per non dover affrontare l’argomento.
Tornato a New York Marek si trova un giorno in una biblioteca ed osserva con i bibliotecari che nello schedario ci sono pochissimi libri su Puccini. Gli rispondono che in cantina ci sono quattro casse di roba su Puccini, non ancora inventariata. Marek va a vedere ed intuisce che cosa è successo – nessuno saprà mai spiegarglielo nei dettagli: dei soldati americani sono passati da Torre del Lago, hanno razziato un  la villa ed hanno portato via quattro casse di lettere personali del maestro. Non sapendo cosa farne, le hanno depositate alla biblioteca. Ed ecco lì circa seicento lettere in originale, e soprattutto senza alcuna supervisione dei parenti.

La biografia di Marek è largamente basata sulla lettura di queste lettere. Dato che i materiali poi sono stati restituiti alla famiglia – bisognerebbe dire purtroppo, che sarebbe stato meglio se li tenevano gli americani – in parte sono stati dispersi o rubati o sono inaccessibili, per alcune lettere ormai l’unica fonte disponibile sono le traduzioni che ne fece Marek. Siccome Marek cita letteralmente alcune lettere, ma ne conosce molte di più, per di più ottenute senza alcun filtro, bisogna leggere il suo libro anche tra le righe: lui sa molto di più di quello che scrive.

Davanti a Marek si squaderna improvvisamente la vita privata di Puccini. Solo Vincent Seligman in precedenza, attingendo alle lettere ricevute da sua madre, aveva realmente potuto osservare il Puccini privato (ed infatti Seligman era l’unico ad aver parlato di Doria in un libro). Ma le lettere alla Seligman iniziano relativamente tardi, nel 1905, Marek ha davanti a sé tutta la vita di Puccini scritta come su un quaderno. Ed inizia a decifrarla.

A Marek mancano alcune informazioni spicciole che oggi diamo per scontate. Per fortuna trova subito una lettera dove Puccini racconta la storia della sua famiglia e soprattutto presenta una lista delle sue debordanti sorelle; ma a Marek per esempio non sono chiari tutti i nipoti che pure tornano nella corrispondenza. Un altro punto importante che a Marek non è chiaro è che lui pensa che a Puccini si possono attribuire infedeltà occasionali che scatenano la gelosia di Elvira, ma non arriva a comprendere che almeno due di queste relazioni durano anni, Puccini ne è travolto non solo sessualmente ma anche sentimentalmente ed Elvira ha rischiato davvero di essere buttata fuori casa. Ma anche se mancano alcuni pezzi del puzzle, la ricostruzione che Marek opera della vita di Elvira insieme a Puccini è assolutamente la migliore mai messa su carta per conoscenza e profondità. Marek per esempio fa notare, con molta perspicacia, che la gelosia di Elvira inizia ancora prima dei tradimenti di Giacomo, e che Elvira occasionalmente è gelosa non solo delle altre donne ma anche delle amicizie maschili di Puccini.

Il Puccini di Marek è un uomo che ha dei problemi, certamente con Elvira, ma anche con se stesso. Un uomo fondamentalmente malinconico – da qualche parte Puccini scrive anche che gli piace essere malinconico. Renato Simoni parlava di “mestizia toscana” che a me risulta nuova, non so a voi, ma il termine rende perfettamente molti momenti cupi di Puccini. Perennemente insoddisfatto dei suoi risultati, perché quello che rimane scritto sulla carta è sempre un’ombra di quello che gli risuona dentro. “Un artista mi sembra essere un uomo che guarda la bellezza attraverso un paio di occhiali che, nel respirare, si appannano e velano la bellezza che sta guardando. Prende il fazzoletto e pulisce gli occhiali. Vede chiaro di nuovo. Ma al primo soffio la bellezza sparisce. E’ solo la velatura, l’approssimazione che possiamo percepire”.

Nel soggiorno italiano Marek riesce a farsi dare, tramite un avvocato, copia degli atti del processo a Elvira e fornisce un quadro sintetico della vicenda. Ma, cosa più importante, è il primo a sollevare una questione: come è possibile parlare di Puccini ignorando il caso Doria Manfredi? Non è una questione stupida. Nei testi italiani del tempo Doria non esiste; Adami, nel pubblicare una prima scelta dell’epistolario, è costretto a saltare a piè pari gli anni 1909/10 per non dover ammettere che in casa Puccini oggettivamente c’è stata un po’ di maretta. Le vestali pucciniane, abbiamo visto, desiderano che la cosa non sia ricordata. Vi dirò: dalle voci che mi giungono, penso che in casa Puccini questa faccenda non sia stata metabolizzata nemmeno al giorno d’oggi.

All’epoca di Marek l’unico ad aver scritto di Doria Manfredi, ed in inglese, è Vincent Seligman. Marek ritiene che sia fondamentalmente disonesto per un biografo ignorare il caso Doria: disonesto nei confronti del lettore, ma anche fuorviante: a seguito della morte di Doria la vena creativa di Puccini sembra esaurirsi. A Marek sembra – siate onesti, non ha tutti i torti – che Fanciulla del West e Rondine non abbiano lo stesso altissimo livello di Bohéme, Tosca e Butterfly, e che Puccini impieghi dieci anni buoni per uscire da questa crisi (a seconda dei gusti, riuscirà ad eguagliare se stesso con Suor Angelica o meglio Turandot). E la colpa di tutto questo sta nel trauma della morte di Doria e nella bruttissima piega che ha preso la sua vita domestica.

Marek indirettamente risponde alle mie ammiratrici che in questo giorno mi hanno chiesto più volte: perché fare del gossip su Puccini? A noi interessa la sua musica. A parte il fatto che resistere alla tentazione di raccontare una storia interessante mi è praticamente impossibile – a tutto posso resistere tranne che alle tentazioni, scriveva Oscar Wilde – non posso neanche fare a meno di chiedermi: ma tutto questo, poi, praticamente, si sente nella musica di Puccini?


La mia risposta è differente da quella di Marek. La regressione creativa dopo il 1910 è evidente ma non così grave come crede Marek (nella mia opinione, il peggiore Puccini è sempre meglio del migliore Mascagni). Contrariamente all’opinione di insigni commentatori, non credo di ritrovare molto di biografico in Turandot. Sto tuttora chiedendomi come dovrei leggere Butterfly alla luce della vicenda biografica, considerato che la relazione con Cori si sovrappone esattamente alla scrittura di Butterfly. E questo sarebbe il post più difficile, quello che non mi riesce di scrivere.

23/10/17

Come si scrive un’opera di Puccini

Un’altra cosa che mi devo far perdonare è di aver fatto un po’ troppi pettegolezzi su Puccini. Per cui oggi parliamo di un argomento serio: come è scritta un’opera di Puccini?

Puccini non è un autore prolifico.  Dodici opere liriche, di cui quattro in un solo atto. Pochissime cose oltre le opere, e più o meno tutti i temi dei lavori non operistici riciclati dentro le opere. Lo so che vi scandalizzerò, ma questa estrema economia può volere dire solo due cose: o grande fatica nel comporre (il mio professore di composizione, poco cerimonioso, la chiamava “stitichezza”), o un compositore estremamente critico verso se stesso. Io penso la prima e non è un insulto. Ravel diceva che la lunghissima melodia del secondo movimento del concerto in sol per pianoforte non era il risultato di ispirazione ma di un lavoro lunghissimo, e non vedo perché dovrebbe essere offensivo pensare di Puccini lo stesso.

Il lavoro di creazione dell’opera veniva svolto insieme ai librettisti e, almeno fino a Butterfly, con Giulio Ricordi, che in tutto questo processo aveva il ruolo che oggi noi chiameremmo di “produttore”: colui che anticipa i soldi, organizza il team creativo e coordina la creazione del lavoro. Puccini, abbiamo visto, aveva l’abitudine di scrivere lettere e cartoline a tutti. Siccome con queste persone poteva occasionalmente lavorare dal vivo nella stessa stanza, ma più frequentemente a distanza e ognuno inviava il suo contributo da casa, è un po’ come se avessimo installata una cimice in casa Puccini che ci permette di vedere, giorno per giorno, come l’opera viene scritta. E’ vero che l’epistolario non ci è arrivato completo; le lettere in parte o sono andate perse o sono di proprietà privata per cui non se ne conosce l’esistenza o non ne è consentito l’accesso. Ma, per esempio, tutte le carte di Luigi Illica sono rimaste alla biblioteca di Piacenza, che con questo lascito è diventata la proprietaria del fondo pucciniano più esteso del mondo, e da queste vediamo la scrittura delle tre opere più importanti.

Attenzione: dalla nostra cimice vediamo la scrittura del libretto. Quando Puccini si chiude in casa a scrivere la musica, preferibilmente di notte seduto ad un pianoforte verticale che poi fu dotato di una sordina speciale per far dormire i familiari, di fatto la nostra cimice è spenta e non vediamo più come lavora. Ma la gestazione del libretto è talmente laboriosa e dettagliata che già ci fornisce molte informazioni. E comunque dagli invii dei fascicoli della partitura alla Casa Ricordi perché li passino a copisti ed incisori possiamo stilare un calendario della composizione e dire, spesso con l’approssimazione di pochi giorni, in qulae ordine e quando ogni singolo passaggio è stato scritto.

Dopo aver preso un grosso abbaglio scrivendo l’Edgar su un soggetto inadatto a lui, da Manon Lescaut Puccini prende il coraggio a due mani ed incomincia ad intervenire pesantemente sui suoi librettisti. A volte la composizione della squadra di creativi fu cambiata in corsa: sul libretto di Manon Lescaut hanno messo le mani almeno sette persone e alla fine è stato pubblicato come anonimo. Quando la Fanciulla del West era già a buon punto, Puccini richiese perentoriamente che Zangarini si facesse affiancare da Civinini con grave scorno del primo. – Giacosa, stanco delle continue revisioni che gli venivano richieste, minacciò di ritirarsi dai lavori infinite volte. Giacosa non si sentiva librettista ma giornalista e scrittore, le richieste di Puccini gli facevano perdere infinito tempo ed interferivano con la sua attività principale. – In almeno due casi, Bohéme e Butterfly, un intero atto che era già stato sceneggiato e verseggiato non fu messo in musica, ribaltando il piano drammatico dell’opera. Per Rondine, Adami disse di aver scritto l’equivalente di sedici atti prima di contentare il maestro. Alcuni soggetti semplicemente furono abbandonati dopo essere stati lungamente considerati ma senza che venisse scritta una nota di musica: una Maria Antonietta lungamente progettata da Illica, Gli Zoccoletti da un soggetto della scrittrice Ouida, Conchita dello scrittore Loüys che poi fu messa in musica da Zandonai. Il soggetto di Tosca era stato promesso a Franchetti e da Ricordi dirottato su Puccini, La Bohéme fu scritta in competizione con quella di Leoncavallo. Non parliamo della collaborazione fra Puccini e D’Annunzio, che gli propose a ripetizione quei soggetti altisonanti che a Puccini attorcigliavano le budella, per cui nonostante le pressioni di Ricordi i due non riuscirono mai a scrivere un’opera insieme.

In particolare con Illica e Giacosa, si stabilisce una divisione del lavoro: Illica è di massima lo sceneggiatore, che scrive uno svolgimento dettagliato del soggetto in prosa e una traccia dei dialoghi. Giacosa è il verseggiatore, che trasferisce questi dialoghi in versi. Illica ha scritto da solo, sceneggiatura e versi, diversi altri libretti (Iris ed Andrea Chénier, per esempio). Ma Puccini, che rispettava assai in Illica la capacità di immaginare le situazioni sulla scena, aveva dubbi sulla musicalità dei suoi versi (che un giornalista aveva soprannominato “illicasillabi”) e preferiva che fosse Giacosa, con la sua pazienza certosina, a trovare le parole effettive che i personaggi avrebbero cantato. Giacosa a mio avviso ha fatto un bellissimo lavoro, alcune delle sue espressioni (“che gelida manina”) sono entrate addirittura nel linguaggio corrente. Giacosa muore dopo Madama Butterfly; Illica accettava di essere appaiato a Giacosa che era un personaggio di caratura indiscutibile, ma non ad altri. Per cui Puccini terminerà la collaborazione con Illica non volendo lavorare con lui da solo. – Non era facile lavorare neanche con Giacosa; un punto costante di rottura era questo: se Puccini metteva solo parzialmente in musica i versi di Giacosa, questi avrebbe voluto che sul libretto a stampa in vendita al pubblico fosse trascritto il suo lavoro per intero, nel suo equilibrio poetico autonomo, e non solo i versi scelti da Puccini. Anche se in generale non veniva accontentato, questo spiega perché occasionalmente i libretti stampati da Ricordi non siano esattamente identici al testo della partitura.

Puccini era una dannazione per i suoi librettisti. Di norma non iniziava a scrivere musica fino a quando non aveva un testo tendenzialmente definitivo di tutto l’atto sul quale doveva lavorare.  Dopo di che richiedeva, secondo l’andamento della composizione, continue modifiche, arrestando la composizione dell’opera fino a quando non tornava indietro il nuovo testo e quindi costringendo i librettisti a fare le corse. In un caso famoso Giacosa si rifiutò di continuare a cambiare le parole de La Bohéme, fu convocato da Ricordi che gli suonò al pianoforte il primo atto che era l’unico già composto. Giacosa rimase senza fiato, disse che finalmente aveva capito le ragioni di Puccini e tornò al lavoro.

Sono relativamente rari i casi in cui è stata scritta prima la musica e poi adattati sopra i versi. Che io sappia, sono un paio: il valzer di Musetta nella Bohéme, per cui a Giacosa furono mandati dei versi provvisori perché ne scrivesse sullo stesso metro (la traccia iniziava con “Cocoricò, cocoricò bistecca” che diventa “Quando men vo, quando men vo soletta”); e la romanza di Cavaradossi “E lucean le stelle” dove Puccini scrisse un testo guida provvisorio, lo mandò perché fosse scritto un testo migliore sullo stesso metro, e alla fine conservò per la maggior parte le parole che aveva scritto lui stesso.

Meno chiaro, scrivevo più sopra, è il processo della composizione musicale. Ci sono avanzati alcuni manoscritti in forma di abbozzo che potrebbero chiarirlo, ma non sono molti e spesso sono diventati souvenir privati e non sono accessibil. Forse in soffitta a Torre del Lago ce ne sono altri che gli eredi non hanno mai fatto vedere. – In una prima fase Puccini compone o un atto intero o comunque una delle macroscene che lo suddividono; in una seconda fase si mette a tavolino e “strumenta” la musica già scritta, cioè redige la partitura completa per orchestra dall’abbozzo precedente; questa seconda fase è relativamente più meccanica della prima, per cui può capitare che Puccini faccia la strumentazione di un atto mentre interi pezzi dell’atto successivo sono ancora da buttare giù in abbozzo. – Questo è il motivo, per esempio, per cui abbiamo Turandot sostanzialmente completa tranne l’ultimo quarto d’ora. In attesa di risolvere il problema del finale, Puccini completò la partitura fino a tutta la morte di Liù, lasciandoci un troncone comunque in stato definitivo ed eseguibile.

Le opere di Puccini, come quelle di Wagner, sono “durchkomponierte”, cioè sono composte senza interruzione nella continuità. Il maestro di Puccini, Ponchielli, scriveva ancora opere divise in numeri, arie duetti pezzi d’insieme, etc. ; Puccini lascia ovviamente ad ogni personaggio un momento di esprimersi, ma la struttura di ogni atto è continua. (Puccini, però, non è Wagner, e furbescamente ogni tanto lascia un attimo di pausa per un applauso, per esempio dopo le arie di Rodolfo e Mimì; dove non lo lascia, come per esempio dopo “E lucean le stelle” e dopo “Nessun dorma”, lo spazio se lo prendono i direttori).

E’ da notare che a Puccini interessa più la struttura globale dell’atto che il momento di espressione musicale o la soddisfazione del singolo cantante. Puccini per molto tempo ha considerato di togliere da Tosca “Vissi d’arte” perché rallenta l’azione. Per molto tempo Manon si è rappresentata senza “Sola, perduta e abbandonata” per abbreviare l’ultimo atto che è monocorde, ed è stata restaurata al suo posto solo negli anni venti per richiesta di Toscanini. Il monologo di Suor Angelica sul veleno dei fiori fu cassato (anche se Ricordi, prudenzialmente, lo stampa ancora nell’incertezza della versione definitiva). In altre parole stiamo parlando di togliere all’interprete principale della serata il momento dove può maggiormente mettere in evidenza le sue doti vocali: è che a Puccini più ancora della musica interessava il montaggio della vicenda, la corretta tempistica dei momenti, il catturare l’attenzione del pubblico senza allentare mai la tensione. Puccini lavora in maniera cinematografica, per questo le sue opere risultano così vicine alla nostra sensibilità; e per questo tanta parte del lavoro doveva essere spesa con i librettisti.

Un paradosso è che Puccini si tormentò tutta la vita per cercare di essere al passo con i tempi temendo di essere considerato un passatista, quando viceversa il taglio delle sue opere è così moderno. Ho scritto: cinematografico, ma non è a mio avviso Puccini ad anticipare il cinema quanto il cinema a copiare il taglio pucciniano. Negli anni trenta il cinema soppianta l’opera non solo come forma di spettacolo di massa, ma soprattutto come luogo dove si costruiscono le grandi narrazioni. Contemporaneamente la politica razziale di Hitler costringe un discreto gruppo di registi, scrittori e musicisti tedeschi e austriaci all’esodo verso gli Stati Uniti; quelli che di loro lavorano nel cinema ad Hollywood, inevitabilmente vi riciclano l’idea di spettacolo di cui avevano avuto esperienza in patria nei teatri d’opera. Un esempio potrebbe essere Erich Wolfgang Korngold, che fu letteralmente pupillo di Puccini che lo dichiarò essere il più promettente dei giovani compositori austriaci. Riparato in America dopo il 1934, passò il resto della sua vita a scrivere colonne sonore di stampo pucciniano per il cinema.

Quando la partitura, o almeno una sezione importante di essa, era terminata, veniva convocato a casa Puccini il Carignani che ripartiva dall’inizio e stendeva lo spartito canto/piano, che ai fini della pubblicazione era essenziale: è lo spartito di lavoro di cantanti e registi, è lo spartito che viene messo in vendita al pubblico generale. In qualche caso ci fu tempo abbondante per allestire i materiali a stampa dell’opera, nel caso di Butterfly che fu completata pochi giorni prima dell’inizio delle prove i cantanti ricevevano fogli staccati provvisori ed imparavano l’opera man mano che il Carignani era in grado di consegnarne una sezione.

Un discorso a parte meritano le revisioni delle opere: a parte Turandot che non ha neanche fatto in tempo a completare, e con l’estremo di Butterfly e Rondine dove le riscritture sono sostanziali, Puccini ha revisionato tutte le sue opere dopo averle viste rappresentate; con grande scocciatura di Ricordi, che ogni volta doveva buttare via la tiratura passata e far modificare le lastre di incisione. Da capo, quello che interessa a lui è il montaggio, il fluire di una scena nell’altra. In Bohéme, che era quasi perfetta, ha aggiunto in un secondo tempo la scenetta “Signorina Mimì, che dono raro” e qualche alterazione sulla linea melodica del valzer di Musetta (evidentemente il cocoricò non aveva dato i suoi risultati). Butterfly fu sottoposta ad imponenti revisioni immediatamente dopo il suo insuccesso, ma per qualche anno Puccini continuò ad aprire e chiudere tagli fino alla versione per Parigi – dove il soprano madame Carré desiderava risparmiarsi ed essendo la moglie del sovrintendente aveva il suo peso – che diventa quella definitiva. Chi legga lo spartito adesso ne vede ancora le ferite, che i numeri di riferimento delle prove non sono più in sequenza a causa degli ampi tagli. In Tabarro il momento centrale, il monologo di Michele, fu completamente riscritto (da “Scorri, fiume” divenne “Nulla, silenzio”)

Se vi capita in mano qualche vecchio spartito di Puccini, non è impossibile che rispecchi una versione diversa da quella finale; a volte il lavoro di Casa Ricordi non è stato così scrupoloso e sono state messe in commercio versioni già soppiantate; ma alcune opere, per esempio Manon Lescaut, sono rimaste in vendita per molti anni in una versione poi sorpassata. Schickling ha fatto un penoso lavoro non di catalogazione delle composizioni di Puccini, che sono poche, ma anche delle singole versioni delle composizioni di Puccini, che sono tantissime. A Lucca vorrebbero fare una edizione nazionale, con aspirazione di edizione critica, delle opere di Puccini. Penso che si tratti di una aspirazione forse irraggiungibile per diversi motivi; il primo, che tutti i manoscritti tranne la Rondine che è andato perso, sono di proprietà di Ricordi che ha piuttosto intenzione di fare una nuova edizione in proprio; secondo, che il gioco delle infinite varianti rende estremamente difficile di approntare l’edizione di alcune opere.

Prendiamo ad esempio la Butterfly in versione originale data alla Scala qualche mese fa. Di essa avanza la riduzione per pianoforte che fu data ai cantanti. Quando la partitura era ancora in stadio di manoscritto, Puccini se la riprese indietro e per approntare l’edizione di Brescia vi scrisse sopra le correzioni, tolse alcuni fascicoli, ne aggiunse altri –in definitiva distruggendo la prima edizione. Una edizione critica di stampo musicologico segnalarebbe le correzioni pubblicando i testi accertati. Ricordi invece pubblica edizioni che devono praticamente andare sui leggii del direttore e dell’orchestra, per cui hanno fatto aggiustare dal revisore le correzioni che si inferiscono dalle correzioni dell’autografo e dal confronto degli spartiti per pianoforte delle diverse edizioni, ma alcune cose non sono più disponibili in originale e sono state ricostruite. Quindi un lavoro sostanzialmente diverso. A causa del sostanziale conflitto fra queste due impostazioni – una edizione musicologica si vende a studiosi e biblioteche, una edizione pratica si affitta ai teatri e genera incassi – io stimo improbabile che si possano ricomporre le rispettive aspirazioni delle due edizioni.


Qualche osservazione di stile per terminare. Non tutto quello che ha scritto Puccini è di uguale valore. E in particolare chi scrive per il teatro, come diceva Verdi, qualche volta deve avere il coraggio di non fare musica. Per esempio una situazione potrebbe avere più risalto se è preceduta da materiale di taglio neutro.

In Puccini ci sono pagine ispirate. I dieci minuti dall’entrata di Mimì nella Bohéme ci mostrano due persone normali – come me, come voi – che conversano, ma soffuse di una tale grazia e di una tale luce interna da far sembrare poetica ed ispirata la realtà di tutti i giorni. Strauss che scrisse intere ore di canto di conversazione a mio avviso non riesce mai a raggiungere il livello di questi dieci minuti. – Viceversa tutto l’inizio del IV atto fino a quando, come una lama, Musetta spalanca la porta, mi sembra più opera di mestiere che di ispirazione. E forse è giusto così: a maggior ragione quando la porta si spalanca avvertiamo un immediato cambio di passo. – Ci sono poi delle parti, non molte, dove sia l’ispirazione che il mestiere cedono un po’ il passo. E’ necessario che ci siano per l’evoluzione della trama, ma ci dicono poco musicalmente. Penso a quello che succede dopo “Ecco il bacio di Tosca” oppure “Presto su, Mario!”. – E’ tale il livello globale dei lavori che perdoniamo volentieri al maestro qualche trascuratezza; ma proprio l’impostazione globale dei suoi lavori, tanta ciccia e poco grasso, che rende questi momenti meno felici più evidenti.

Trovo che spesso Puccini sia in difficoltà nell’ultimo atto delle sue opere. Talvolta si è trattato di difficoltà legate sia allo stress della sua vita affettiva, sia allo stress di portare a termine il lavoro entro una data prefissata per il suo allestimento. Nella maggior parte dei casi, però, sono i librettisti che al momento di tirare i fili della vicenda per farla convergere verso la fine, ne perdono la linea conduttrice. Gli stessi Illica e Giacosa, la coppia di librettisti più grande del mondo, in tutte e tre le opere sembrano arenarsi prima del finale. In Bohéme si incartarono su un brindisi prima dell’arrivo di Musetta che Puccini finì per tagliare impietosamente. In Tosca si intestardirono su un inno latino prima della fucilazione di Cavaradossi che nella stesura finale è ridotto ad un moncone (“Trionfal, di nova speme”). In Butterfly, la scena con Kate Pinkerton. Un altro esempio è la scena de La Rondine dove Magda svela la sua passata vita: ai peggiori versi del libretto corrisponde la peggiore musica dell’opera. In questi casi, se il libretto non lo convinceva, Puccini diventava quasi incapace di scrivere musica convincente lui stesso.  Nella Turandot poi, sono convinto che se i librettisti fossero stati capaci di proporre una scena finale più accattivante, Puccini avrebbe finito l’opera prima del precipitare della sua malattia.






22/10/17

Parlando di Elvira

Una cosa che mi devo un po’ far perdonare è di aver dato dell’Elvira Puccini una immagine un tendenzialmente caricaturale. Può succedere, perché era talmente gelosa di Puccini (e non a torto) da scadere facilmente nel ridicolo.  Lo scrive chiaramente Vincent Seligman, figlio di Sybil, che da bambino era stato ospite in casa Puccini:

“Alcune delle manifestazioni [della gelosia di Elvira] non erano prive di aspetti grotteschi; per esempio aveva un enorme ombrello, degno di Sarah Gamp, con il quale era consueta minacciare tutte le cantanti carine che capitavano vicino al maestro – e che, all’occasione, non esitava ad applicare sulle parti più prominenti della loro anatomia; o anche le medicine anti-afrodisiache che, come molti anni più tardi confessò con immenso divertimento di lui,  aggiungeva al caffè del maestro tutte le volte che una donna anche moderatamente attraente era stata invitata a cena.”

(Sarah Gamp era un personaggio di Dickens, molto popolare nell’Inghilterra vittoriana: una anziana infermiera, spesso dedita alla bottiglia, inseparabile da un enorme ombrello. Per estensione, “Gamp” indica fino a fine ottocento un ombrello molto ampio.)

In realtà dovremmo correttamente considerare Elvira come la prima amante di Puccini. Elvira era una donna fortemente passionale; va sposa nel 1880 a neanche venti anni a Narciso Geminiani, un commerciante piuttosto agiato, e gli regala una figlia (Fosca) nata diciamo prematuramente, a sei settimane dal matrimonio. Si dice che Elvira venga mandata a lezione di pianoforte dal giovane Puccini, e che le lezioni siano talmente approfondite che ne rimanga incinta. Quando la “trippa” di lei (così scrive Puccini) non può essere più nascosta, scappa con lui portandosi dietro la figlia ma abbandonando un bambino poco più che neonato, rinunciando a una vita tranquilla da signora benestante per diventare la compagna irregolare di un artista squattrinato, bandita da Lucca dove non si può più far vedere, con un figlio illegittimo (Antonio detto Tonio, nato nel 1886) che scandalizza persino i parenti presso i quali spesso si deve rifugiare perché Puccini non ha sempre entrate tali da dare da mangiare a lei ed ai suoi figli. E non è possibile nemmeno regolarizzare la loro unione perché il divorzio non esiste e lei rimarrà sposata al Gemignani finchè morte non separi. Una scelta talmente irrazionale da dare una idea di quanto travolgente dovesse essere il loro legame. Sappiamo dei nomignoli erotici che si davano l’un l’altra, il fatto che l’attuale erede Simonetta Puccini abbia proibito, a distanza di 130 anni, la pubblicazione delle loro lettere di questo periodo qualche cosa deve significare.

Puccini raggiunge la sicurezza economica solo con il successo di Manon Lescaut, che è del 1893. Da allora la vita di famiglia si svolge tra due poli, prevalentemente a Torre del Lago ma anche in un appartamento in affitto a Milano, prima in via Solferino e poi a lato della Scala.
Puccini amava immensamente Torre del Lago, dove aveva amici simpatici, la possibilità di andare a caccia, pochi scocciatori, nessuna necessità di fare vita mondana, silenzio e spazio per scrivere musica anche e soprattutto di notte. Le due donne di casa, Elvira e Fosca, viceversa detestavano quel luogo davanti ad una palude che mancava di tutte le distrazioni della vita che si potevano facilmente trovare a Milano, e la consideravano poco più di una prigione – a maggior ragione, poi, la villetta che fu costruita a Chiatri che era ancora più isolata e dove non arrivava neanche la posta.

Da quando Puccini si stabilisce a Torre del Lago, la sua vita e quella di Elvira prendono due cammini divergenti. Con il passare del tempo lui diventa sempre più ricco, affascinante, elegante, raffinato, semplicemente: bello – dirà Alma Mahler, che in fatto di uomini aveva qualche cosa da raccontare, che Puccini era uno dei più belli che avesse veduto. Elvira viceversa si abbrutisce in una casa che odia, diventa trascurata nel vestire e sempre più brutta, indifferente alla musica e alla vita artistica di Puccini.

Un dettaglio non trascurabile è che tutto questo incomincia quando Puccini è più vicino ai quaranta anni che ai trenta. Puccini invidiò sempre a Mascagni di avere avuto successo e la possibilità di goderselo a soli ventisette anni. A lui il successo arrivò più tardi, quando i migliori anni della gioventù erano passati. Per bello ed elegante che apparisse, Puccini aveva il terrore di invecchiare – soprattutto, bisogna ammetterlo, il terrore di invecchiare da un punto di vista sessuale – fino a considerare, prima di scoprire la sua malattia finale, di sottoporsi alla cura Voronov contro l’invecchiamento che prevedeva l’impianto di testicoli di scimmia.

Abbiamo quindi nella villa di Torre del Lago una miscela potenzialmente esplosiva. E la prima esplosione abbiamo quando – siamo nel 1900 - Puccini perde la testa per la Cori, la sartina piemontese minorenne. Ammetto una seconda volta che nel raccontare la storia forse ho esagerato nel metterne in evidenza gli aspetti farseschi, e probabilmente non sono riuscito a far capire come dietro a questa figliola così generosa nel concedersi, Puccini abbia letteralmente perso la testa. Quella che doveva essere una bella trombata con una ragazzetta per dimostrare a sé ed agli amici che la virilità di un tempo non era svanita, diventa nel corso di tre anni una crisi esistenziale, poi una crisi familiare e alla fine una crisi al vertice nel mondo della musica. Per conto mio, se dopo soli sei mesi Puccini si porta la piemontese a dare una occhiata alla villa di Torre del Lago dall’interno mentre Elvira non c’è, è perché accarezza il progetto di liquidare Elvira magari con un buon assegno, e di ricominciare a godersi la vita con una nuova compagna, giovane e piacevole. Il paradosso è che Puccini la Cori potrebbe anche sposarla – magari aspettando qualche anno, che quando lei visita la casa ha 17 anni – ma l’Elvira non la può sposare neanche volendo perché è ancora maritata al Gemignani. – Quando l’Elvira viene a sapere dell’amante, inizia la prima grave crisi familiare. Elvira è estremamente aggressiva, fino ad arrivare appunto alle ombrellate, perché sente il terreno che le frana sotto i piedi. Lei ha abbandonato un tranquillo matrimonio borghese per una avventura romantica che poi ha avuto più disagi che momenti belli, ora che una forma di stabilità è stata raggiunta compare questa ragazzetta ed Elvira rischia di finire sulla strada, con due figli di cui uno illegittimo e nessuna garanzia per il futuro. Anche una donna meno temperamentale dell’Elvira avrebbe fatto fuoco e fiamme nella medesima situazione.

La crisi si estende al business della musica e lo vediamo nella corrispondenza fra Illica e Giulio Ricordi. Puccini è il principale asset di casa Ricordi, il compositore che con i successi di Manon, Bohéme e Tosca porta a casa il lesso per tutti, il successore di Giuseppe Verdi, ed il compositore che porta il buon nome dell’Italia del mondo. E per colpa di questa puttana (per la precisione:  Giulio scrive “bassa creatura dagli istinti puttanieri”) si rischia non solo che Butterfly non arrivi al termine, ma che Puccini si riduca in tale stato di rimbambimento da non lavorare mai più – ammesso che lei non gli attacchi anche la sifilide.

Come abbiamo visto, gli eventi dell’anno 1903 – l’incidente di auto e la morte di Gemignani che lascia libera Elvira di risposarsi a partire dal 1904 – danno un taglio violento alla relazione, Puccini è costretto al matrimonio con Elvira ma a questo punto la loro relazione, pure stabilizzata dal punto di vista legale, è seriamente danneggiata.

La crisi successiva è con la vicenda di Doria Manfredi, una domestica in casa Puccini. Siamo a fine 1908. Elvira si convince – o più probabilmente qualcuno, si sospetta Fosca, le mette in testa che Puccini abbia una tresca con la servetta. La ragazza viene licenziata, grandi litigi in famiglia, poi di nuovo riassunta, poi cacciata ancora via. Elvira non si contenta di togliersela di casa, ma la vuole distruggere completamente. Stalking in concentrazione distillata. Elvira va dal prete di Torre del Lago e dalla madre di lei per esigere che Doria sia cacciata dal paese. Quando la incontra per strada la insulta pesantemente (i testimoni ripeteranno al processo le litanie di Elvira: troia, puttana, schifa, sei la ganza di mio marito, ti affogo nel lago). La coppia esplode: Puccini il 22 gennaio 1909 scappa a Roma con la scusa delle prove di Tosca, Elvira va a Milano. Il 23 Doria si avvelena e muore di morte lenta e straziante il 29. Come da sua richiesta, viene effettuata una autopsia e trovata vergine: le accuse di Elvira erano infondate.

Come il cardiologo ricava le informazioni più rilevanti per la salute quando il cuore è sottoposto ad una prova sotto stress, così possiamo studiare il matrimonio fra Elvira e Puccini principalmente nei momenti in cui è alla prova degli eventi e rischia di andare in frantumi. Questa volta il motivo è oggettivamente giustificato: la gelosia di Elvira ha richiesto un sacrificio umano. Elvira scrive a Puccini una lettera durissima, ancora urtante oggi da leggere, addirittura terrificante se se ne guarda la scrittura rabbiosa sul facsimile pubblicato da Marchetti. Inizia rivangando l’affare con la piemontese (e involontariamente ci fornisce informazioni sul ricatto legale a cui fu sottoposto Puccini), poi accusa Puccini di avere distrutto la famiglia con il suo egoismo, di averla offesa nel suo affetto di moglie ed amante appassionata, e gli predice che morirà solo e abbandonato da tutti (si dice che Puccini, ogni volta che rileggeva questa lettera, si grattasse i gioielli). Però, nonostante la prova schiacciante dell’autopsia, non accetta di ammettere la sua colpa: per Elvira Doria aveva una tresca con Puccini, non cambia la sua versione.

Puccini si rivolge all’avvocato Nasi di Torino, che è non solo il suo legale ma anche amico e occasionale compagno di zingarate; ed è quello che ha condotto le trattative per disinnescare il ricatto della piemontese. Nasi gli consiglia di separarsi da Elvira, sia per tutelare il suo nome coinvolto in uno scandalo, sia per tutelare la sua stessa salute. Non esiste il divorzio e quindi il matrimonio non può essere cancellato, tuttavia la convivenza è impossibile e sconsigliabile. Nasi stende addirittura un atto di separazione che precisa le condizioni economiche, da far registrare davanti al pretore, atto che finì in un cassetto e mai messo in pratica. Illica, che pure avrebbe avuto diritto ad un po’ di risentimento perché dopo la morte di Giacosa Puccini gli aveva preferito altri librettisti (fra l’altro principianti come Zangarini e Civinini, e quest’ultimo aveva anche messo la discordia in casa Puccini), gli dà un altro consiglio: prendi il primo piroscafo da Genova per l’America, dichiara che vai a documentarti in loco per la Fanciulla del West, e sparisci.

Puccini non ascolta né Nasi né Illica. Lentamente cerca la riconciliazione con Elvira, la salva dall’onta del carcere pagando una cifra esorbitante ai parenti di Doria (che i parenti accettano non prima comunque che Elvira venga condannata in primo grado, onde la reputazione di Doria fosse chiarita in via legale). Dopo alcuni mesi la coabitazione riprende, e per un po’ l’Elvira è costretta a darsi una regolata.

La terza volta che il matrimonio rischia di saltare è all’epoca della relazione di Puccini con la von Stengel. Sappiamo, perché lo scrive lei, che anche in questo caso lui se la porta in casa di nascosto dove la von Stengel assume le funzioni di Elvira – apparecchiare la tavola, stare in salotto ad ascoltare il grammofono – e anche presumibilmente le funzioni che Elvira lamentava di non svolgere più. Puccini acquista di nascosto un appezzamento di terreno per costruire una “villina” alla von Stengel, con un prestito in nero di Ricordi che non deve figurare nella contabilità che veniva controllata da moglie e figlio. La guerra fa saltare tutti progetti di convivenza. Puccini continua a vedere la von Stengel in Svizzera, Elvira non è cretina, capisce e se ne lamenta. Puccini le risponde con una lettera atroce ma sincera, che lui deve essere lasciato libero di coltivare le sue relazioni, che la famiglia che è una cosa seria non la ha mai messa in pericolo, e che in quel momento la von Stengel (“quella persona”) non è con lui. La terza cosa non è vera, la seconda neanche.

Puccini ed Elvira escono dagli anni di guerra abbastanza spompati. Personalmente penso che la relazione con la Ader sia stata più una forma di intrattenimento, con un coinvolgimento fisico ed emotivo molto minore rispetto a Cori e Josephine. Negli ultimi due anni Puccini ed Elvira sono due vecchi che hanno diviso una vita insieme, non hanno forse molto da dirsi, hanno molto da perdonarsi. Non dico che torni la tenerezza ma almeno sembrano tranquilli. Uno degli ultimi pensieri di Puccini, forse l’ultimo, scritto su un biglietto perché non poteva più parlare, è dal letto della clinica di Bruxelles ed è per Elvira: “Elvira povera donna finita”.

Carner ha inaugurato una lettura psicoanalitica della figura di Elvira, per cui la vede come ispiratrice di due personaggi di donne feroci ed implacabili come la Zia principessa di Suor Angelica e Turandot. Recentemente qualcun altro (non ricordo chi) ha suggerito in realtà che Elvira sia l’ispiratrice di tutti i personaggi femminili di Puccini, che per un verso o per un altro ne riprendono un aspetto del carattere. Mi sembrano esagerazioni. Il problema di Elvira è proprio che, a partire da una certa età, non ispirava proprio niente a Puccini. Anzi, sopportava malvolentieri la musica incluso quella di suo marito. E non aveva certo un carattere multiforme che si potesse perdere in mille sfaccettature, piuttosto era il gendarme di casa. Puccini l’aveva soprannominata “il mio poliziotto” perché Elvira era perfettamente in grado di condurre una indagine, se necessario assoldando spie ed informatori; era capace di condurre perquisizioni (un biglietto della Cavalieri fu trovato nel nastro interno del cappello a cilindro di lui, dopo avere ispezionato inutilmente tasche, fodere e persino la risvolta dei pantaloni); o anche di condurre appostamenti, come quella volta che Puccini se la ritrovò la sera in giardino vestita da uomo per vedere se per caso arrivava qualche ganza.  Alla fine sono convinto che il gioco reciproco di gelosie e tradimenti fosse diventato una forma di sport per tutti e due, come per vedere chi fosse stato capace di sopravanzare l’altro in una gara all’ultimo stratagemma. – Ma con Elvira non si poteva discutere né di musica né di possibili soggetti di opera (per questo ci fu la provvidenziale Sybil Seligman); lei si lamentava che lui non la voleva dietro nei suoi viaggi, il che è vero, ma è anche vero che quando lo seguiva diventava oggettivamente un peso morto e spesso lei finiva con il chiudersi in albergo nel torpore.

Se parliamo di ispirazione, più che alle nostre impressioni io ascolterei la voce di Puccini. E  i documenti ci danno delle risposte sorprendenti. Certamente Cori è stata una fonte di ispirazione – potrei forse tornarci sopra in un post separato. E, leggiamo in una lettera a Giulio Ricordi tuttora inedita, esiste una donna reale che Puccini vedeva simile a Minnie della Fanciulla del West. Di tutte, la più improbabile: Doria Manfredi.