23/10/17

Come si scrive un’opera di Puccini

Un’altra cosa che mi devo far perdonare è di aver fatto un po’ troppi pettegolezzi su Puccini. Per cui oggi parliamo di un argomento serio: come è scritta un’opera di Puccini?

Puccini non è un autore prolifico.  Dodici opere liriche, di cui quattro in un solo atto. Pochissime cose oltre le opere, e più o meno tutti i temi dei lavori non operistici riciclati dentro le opere. Lo so che vi scandalizzerò, ma questa estrema economia può volere dire solo due cose: o grande fatica nel comporre (il mio professore di composizione, poco cerimonioso, la chiamava “stitichezza”), o un compositore estremamente critico verso se stesso. Io penso la prima e non è un insulto. Ravel diceva che la lunghissima melodia del secondo movimento del concerto in sol per pianoforte non era il risultato di ispirazione ma di un lavoro lunghissimo, e non vedo perché dovrebbe essere offensivo pensare di Puccini lo stesso.

Il lavoro di creazione dell’opera veniva svolto insieme ai librettisti e, almeno fino a Butterfly, con Giulio Ricordi, che in tutto questo processo aveva il ruolo che oggi noi chiameremmo di “produttore”: colui che anticipa i soldi, organizza il team creativo e coordina la creazione del lavoro. Puccini, abbiamo visto, aveva l’abitudine di scrivere lettere e cartoline a tutti. Siccome con queste persone poteva occasionalmente lavorare dal vivo nella stessa stanza, ma più frequentemente a distanza e ognuno inviava il suo contributo da casa, è un po’ come se avessimo installata una cimice in casa Puccini che ci permette di vedere, giorno per giorno, come l’opera viene scritta. E’ vero che l’epistolario non ci è arrivato completo; le lettere in parte o sono andate perse o sono di proprietà privata per cui non se ne conosce l’esistenza o non ne è consentito l’accesso. Ma, per esempio, tutte le carte di Luigi Illica sono rimaste alla biblioteca di Piacenza, che con questo lascito è diventata la proprietaria del fondo pucciniano più esteso del mondo, e da queste vediamo la scrittura delle tre opere più importanti.

Attenzione: dalla nostra cimice vediamo la scrittura del libretto. Quando Puccini si chiude in casa a scrivere la musica, preferibilmente di notte seduto ad un pianoforte verticale che poi fu dotato di una sordina speciale per far dormire i familiari, di fatto la nostra cimice è spenta e non vediamo più come lavora. Ma la gestazione del libretto è talmente laboriosa e dettagliata che già ci fornisce molte informazioni. E comunque dagli invii dei fascicoli della partitura alla Casa Ricordi perché li passino a copisti ed incisori possiamo stilare un calendario della composizione e dire, spesso con l’approssimazione di pochi giorni, in qulae ordine e quando ogni singolo passaggio è stato scritto.

Dopo aver preso un grosso abbaglio scrivendo l’Edgar su un soggetto inadatto a lui, da Manon Lescaut Puccini prende il coraggio a due mani ed incomincia ad intervenire pesantemente sui suoi librettisti. A volte la composizione della squadra di creativi fu cambiata in corsa: sul libretto di Manon Lescaut hanno messo le mani almeno sette persone e alla fine è stato pubblicato come anonimo. Quando la Fanciulla del West era già a buon punto, Puccini richiese perentoriamente che Zangarini si facesse affiancare da Civinini con grave scorno del primo. – Giacosa, stanco delle continue revisioni che gli venivano richieste, minacciò di ritirarsi dai lavori infinite volte. Giacosa non si sentiva librettista ma giornalista e scrittore, le richieste di Puccini gli facevano perdere infinito tempo ed interferivano con la sua attività principale. – In almeno due casi, Bohéme e Butterfly, un intero atto che era già stato sceneggiato e verseggiato non fu messo in musica, ribaltando il piano drammatico dell’opera. Per Rondine, Adami disse di aver scritto l’equivalente di sedici atti prima di contentare il maestro. Alcuni soggetti semplicemente furono abbandonati dopo essere stati lungamente considerati ma senza che venisse scritta una nota di musica: una Maria Antonietta lungamente progettata da Illica, Gli Zoccoletti da un soggetto della scrittrice Ouida, Conchita dello scrittore Loüys che poi fu messa in musica da Zandonai. Il soggetto di Tosca era stato promesso a Franchetti e da Ricordi dirottato su Puccini, La Bohéme fu scritta in competizione con quella di Leoncavallo. Non parliamo della collaborazione fra Puccini e D’Annunzio, che gli propose a ripetizione quei soggetti altisonanti che a Puccini attorcigliavano le budella, per cui nonostante le pressioni di Ricordi i due non riuscirono mai a scrivere un’opera insieme.

In particolare con Illica e Giacosa, si stabilisce una divisione del lavoro: Illica è di massima lo sceneggiatore, che scrive uno svolgimento dettagliato del soggetto in prosa e una traccia dei dialoghi. Giacosa è il verseggiatore, che trasferisce questi dialoghi in versi. Illica ha scritto da solo, sceneggiatura e versi, diversi altri libretti (Iris ed Andrea Chénier, per esempio). Ma Puccini, che rispettava assai in Illica la capacità di immaginare le situazioni sulla scena, aveva dubbi sulla musicalità dei suoi versi (che un giornalista aveva soprannominato “illicasillabi”) e preferiva che fosse Giacosa, con la sua pazienza certosina, a trovare le parole effettive che i personaggi avrebbero cantato. Giacosa a mio avviso ha fatto un bellissimo lavoro, alcune delle sue espressioni (“che gelida manina”) sono entrate addirittura nel linguaggio corrente. Giacosa muore dopo Madama Butterfly; Illica accettava di essere appaiato a Giacosa che era un personaggio di caratura indiscutibile, ma non ad altri. Per cui Puccini terminerà la collaborazione con Illica non volendo lavorare con lui da solo. – Non era facile lavorare neanche con Giacosa; un punto costante di rottura era questo: se Puccini metteva solo parzialmente in musica i versi di Giacosa, questi avrebbe voluto che sul libretto a stampa in vendita al pubblico fosse trascritto il suo lavoro per intero, nel suo equilibrio poetico autonomo, e non solo i versi scelti da Puccini. Anche se in generale non veniva accontentato, questo spiega perché occasionalmente i libretti stampati da Ricordi non siano esattamente identici al testo della partitura.

Puccini era una dannazione per i suoi librettisti. Di norma non iniziava a scrivere musica fino a quando non aveva un testo tendenzialmente definitivo di tutto l’atto sul quale doveva lavorare.  Dopo di che richiedeva, secondo l’andamento della composizione, continue modifiche, arrestando la composizione dell’opera fino a quando non tornava indietro il nuovo testo e quindi costringendo i librettisti a fare le corse. In un caso famoso Giacosa si rifiutò di continuare a cambiare le parole de La Bohéme, fu convocato da Ricordi che gli suonò al pianoforte il primo atto che era l’unico già composto. Giacosa rimase senza fiato, disse che finalmente aveva capito le ragioni di Puccini e tornò al lavoro.

Sono relativamente rari i casi in cui è stata scritta prima la musica e poi adattati sopra i versi. Che io sappia, sono un paio: il valzer di Musetta nella Bohéme, per cui a Giacosa furono mandati dei versi provvisori perché ne scrivesse sullo stesso metro (la traccia iniziava con “Cocoricò, cocoricò bistecca” che diventa “Quando men vo, quando men vo soletta”); e la romanza di Cavaradossi “E lucean le stelle” dove Puccini scrisse un testo guida provvisorio, lo mandò perché fosse scritto un testo migliore sullo stesso metro, e alla fine conservò per la maggior parte le parole che aveva scritto lui stesso.

Meno chiaro, scrivevo più sopra, è il processo della composizione musicale. Ci sono avanzati alcuni manoscritti in forma di abbozzo che potrebbero chiarirlo, ma non sono molti e spesso sono diventati souvenir privati e non sono accessibil. Forse in soffitta a Torre del Lago ce ne sono altri che gli eredi non hanno mai fatto vedere. – In una prima fase Puccini compone o un atto intero o comunque una delle macroscene che lo suddividono; in una seconda fase si mette a tavolino e “strumenta” la musica già scritta, cioè redige la partitura completa per orchestra dall’abbozzo precedente; questa seconda fase è relativamente più meccanica della prima, per cui può capitare che Puccini faccia la strumentazione di un atto mentre interi pezzi dell’atto successivo sono ancora da buttare giù in abbozzo. – Questo è il motivo, per esempio, per cui abbiamo Turandot sostanzialmente completa tranne l’ultimo quarto d’ora. In attesa di risolvere il problema del finale, Puccini completò la partitura fino a tutta la morte di Liù, lasciandoci un troncone comunque in stato definitivo ed eseguibile.

Le opere di Puccini, come quelle di Wagner, sono “durchkomponierte”, cioè sono composte senza interruzione nella continuità. Il maestro di Puccini, Ponchielli, scriveva ancora opere divise in numeri, arie duetti pezzi d’insieme, etc. ; Puccini lascia ovviamente ad ogni personaggio un momento di esprimersi, ma la struttura di ogni atto è continua. (Puccini, però, non è Wagner, e furbescamente ogni tanto lascia un attimo di pausa per un applauso, per esempio dopo le arie di Rodolfo e Mimì; dove non lo lascia, come per esempio dopo “E lucean le stelle” e dopo “Nessun dorma”, lo spazio se lo prendono i direttori).

E’ da notare che a Puccini interessa più la struttura globale dell’atto che il momento di espressione musicale o la soddisfazione del singolo cantante. Puccini per molto tempo ha considerato di togliere da Tosca “Vissi d’arte” perché rallenta l’azione. Per molto tempo Manon si è rappresentata senza “Sola, perduta e abbandonata” per abbreviare l’ultimo atto che è monocorde, ed è stata restaurata al suo posto solo negli anni venti per richiesta di Toscanini. Il monologo di Suor Angelica sul veleno dei fiori fu cassato (anche se Ricordi, prudenzialmente, lo stampa ancora nell’incertezza della versione definitiva). In altre parole stiamo parlando di togliere all’interprete principale della serata il momento dove può maggiormente mettere in evidenza le sue doti vocali: è che a Puccini più ancora della musica interessava il montaggio della vicenda, la corretta tempistica dei momenti, il catturare l’attenzione del pubblico senza allentare mai la tensione. Puccini lavora in maniera cinematografica, per questo le sue opere risultano così vicine alla nostra sensibilità; e per questo tanta parte del lavoro doveva essere spesa con i librettisti.

Un paradosso è che Puccini si tormentò tutta la vita per cercare di essere al passo con i tempi temendo di essere considerato un passatista, quando viceversa il taglio delle sue opere è così moderno. Ho scritto: cinematografico, ma non è a mio avviso Puccini ad anticipare il cinema quanto il cinema a copiare il taglio pucciniano. Negli anni trenta il cinema soppianta l’opera non solo come forma di spettacolo di massa, ma soprattutto come luogo dove si costruiscono le grandi narrazioni. Contemporaneamente la politica razziale di Hitler costringe un discreto gruppo di registi, scrittori e musicisti tedeschi e austriaci all’esodo verso gli Stati Uniti; quelli che di loro lavorano nel cinema ad Hollywood, inevitabilmente vi riciclano l’idea di spettacolo di cui avevano avuto esperienza in patria nei teatri d’opera. Un esempio potrebbe essere Erich Wolfgang Korngold, che fu letteralmente pupillo di Puccini che lo dichiarò essere il più promettente dei giovani compositori austriaci. Riparato in America dopo il 1934, passò il resto della sua vita a scrivere colonne sonore di stampo pucciniano per il cinema.

Quando la partitura, o almeno una sezione importante di essa, era terminata, veniva convocato a casa Puccini il Carignani che ripartiva dall’inizio e stendeva lo spartito canto/piano, che ai fini della pubblicazione era essenziale: è lo spartito di lavoro di cantanti e registi, è lo spartito che viene messo in vendita al pubblico generale. In qualche caso ci fu tempo abbondante per allestire i materiali a stampa dell’opera, nel caso di Butterfly che fu completata pochi giorni prima dell’inizio delle prove i cantanti ricevevano fogli staccati provvisori ed imparavano l’opera man mano che il Carignani era in grado di consegnarne una sezione.

Un discorso a parte meritano le revisioni delle opere: a parte Turandot che non ha neanche fatto in tempo a completare, e con l’estremo di Butterfly e Rondine dove le riscritture sono sostanziali, Puccini ha revisionato tutte le sue opere dopo averle viste rappresentate; con grande scocciatura di Ricordi, che ogni volta doveva buttare via la tiratura passata e far modificare le lastre di incisione. Da capo, quello che interessa a lui è il montaggio, il fluire di una scena nell’altra. In Bohéme, che era quasi perfetta, ha aggiunto in un secondo tempo la scenetta “Signorina Mimì, che dono raro” e qualche alterazione sulla linea melodica del valzer di Musetta (evidentemente il cocoricò non aveva dato i suoi risultati). Butterfly fu sottoposta ad imponenti revisioni immediatamente dopo il suo insuccesso, ma per qualche anno Puccini continuò ad aprire e chiudere tagli fino alla versione per Parigi – dove il soprano madame Carré desiderava risparmiarsi ed essendo la moglie del sovrintendente aveva il suo peso – che diventa quella definitiva. Chi legga lo spartito adesso ne vede ancora le ferite, che i numeri di riferimento delle prove non sono più in sequenza a causa degli ampi tagli. In Tabarro il momento centrale, il monologo di Michele, fu completamente riscritto (da “Scorri, fiume” divenne “Nulla, silenzio”)

Se vi capita in mano qualche vecchio spartito di Puccini, non è impossibile che rispecchi una versione diversa da quella finale; a volte il lavoro di Casa Ricordi non è stato così scrupoloso e sono state messe in commercio versioni già soppiantate; ma alcune opere, per esempio Manon Lescaut, sono rimaste in vendita per molti anni in una versione poi sorpassata. Schickling ha fatto un penoso lavoro non di catalogazione delle composizioni di Puccini, che sono poche, ma anche delle singole versioni delle composizioni di Puccini, che sono tantissime. A Lucca vorrebbero fare una edizione nazionale, con aspirazione di edizione critica, delle opere di Puccini. Penso che si tratti di una aspirazione forse irraggiungibile per diversi motivi; il primo, che tutti i manoscritti tranne la Rondine che è andato perso, sono di proprietà di Ricordi che ha piuttosto intenzione di fare una nuova edizione in proprio; secondo, che il gioco delle infinite varianti rende estremamente difficile di approntare l’edizione di alcune opere.

Prendiamo ad esempio la Butterfly in versione originale data alla Scala qualche mese fa. Di essa avanza la riduzione per pianoforte che fu data ai cantanti. Quando la partitura era ancora in stadio di manoscritto, Puccini se la riprese indietro e per approntare l’edizione di Brescia vi scrisse sopra le correzioni, tolse alcuni fascicoli, ne aggiunse altri –in definitiva distruggendo la prima edizione. Una edizione critica di stampo musicologico segnalarebbe le correzioni pubblicando i testi accertati. Ricordi invece pubblica edizioni che devono praticamente andare sui leggii del direttore e dell’orchestra, per cui hanno fatto aggiustare dal revisore le correzioni che si inferiscono dalle correzioni dell’autografo e dal confronto degli spartiti per pianoforte delle diverse edizioni, ma alcune cose non sono più disponibili in originale e sono state ricostruite. Quindi un lavoro sostanzialmente diverso. A causa del sostanziale conflitto fra queste due impostazioni – una edizione musicologica si vende a studiosi e biblioteche, una edizione pratica si affitta ai teatri e genera incassi – io stimo improbabile che si possano ricomporre le rispettive aspirazioni delle due edizioni.


Qualche osservazione di stile per terminare. Non tutto quello che ha scritto Puccini è di uguale valore. E in particolare chi scrive per il teatro, come diceva Verdi, qualche volta deve avere il coraggio di non fare musica. Per esempio una situazione potrebbe avere più risalto se è preceduta da materiale di taglio neutro.

In Puccini ci sono pagine ispirate. I dieci minuti dall’entrata di Mimì nella Bohéme ci mostrano due persone normali – come me, come voi – che conversano, ma soffuse di una tale grazia e di una tale luce interna da far sembrare poetica ed ispirata la realtà di tutti i giorni. Strauss che scrisse intere ore di canto di conversazione a mio avviso non riesce mai a raggiungere il livello di questi dieci minuti. – Viceversa tutto l’inizio del IV atto fino a quando, come una lama, Musetta spalanca la porta, mi sembra più opera di mestiere che di ispirazione. E forse è giusto così: a maggior ragione quando la porta si spalanca avvertiamo un immediato cambio di passo. – Ci sono poi delle parti, non molte, dove sia l’ispirazione che il mestiere cedono un po’ il passo. E’ necessario che ci siano per l’evoluzione della trama, ma ci dicono poco musicalmente. Penso a quello che succede dopo “Ecco il bacio di Tosca” oppure “Presto su, Mario!”. – E’ tale il livello globale dei lavori che perdoniamo volentieri al maestro qualche trascuratezza; ma proprio l’impostazione globale dei suoi lavori, tanta ciccia e poco grasso, che rende questi momenti meno felici più evidenti.

Trovo che spesso Puccini sia in difficoltà nell’ultimo atto delle sue opere. Talvolta si è trattato di difficoltà legate sia allo stress della sua vita affettiva, sia allo stress di portare a termine il lavoro entro una data prefissata per il suo allestimento. Nella maggior parte dei casi, però, sono i librettisti che al momento di tirare i fili della vicenda per farla convergere verso la fine, ne perdono la linea conduttrice. Gli stessi Illica e Giacosa, la coppia di librettisti più grande del mondo, in tutte e tre le opere sembrano arenarsi prima del finale. In Bohéme si incartarono su un brindisi prima dell’arrivo di Musetta che Puccini finì per tagliare impietosamente. In Tosca si intestardirono su un inno latino prima della fucilazione di Cavaradossi che nella stesura finale è ridotto ad un moncone (“Trionfal, di nova speme”). In Butterfly, la scena con Kate Pinkerton. Un altro esempio è la scena de La Rondine dove Magda svela la sua passata vita: ai peggiori versi del libretto corrisponde la peggiore musica dell’opera. In questi casi, se il libretto non lo convinceva, Puccini diventava quasi incapace di scrivere musica convincente lui stesso.  Nella Turandot poi, sono convinto che se i librettisti fossero stati capaci di proporre una scena finale più accattivante, Puccini avrebbe finito l’opera prima del precipitare della sua malattia.






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