Puccini non è un autore prolifico. Dodici opere liriche, di cui quattro in un
solo atto. Pochissime cose oltre le opere, e più o meno tutti i temi dei lavori
non operistici riciclati dentro le opere. Lo so che vi scandalizzerò, ma questa
estrema economia può volere dire solo due cose: o grande fatica nel comporre
(il mio professore di composizione, poco cerimonioso, la chiamava
“stitichezza”), o un compositore estremamente critico verso se stesso. Io penso
la prima e non è un insulto. Ravel diceva che la lunghissima melodia del
secondo movimento del concerto in sol per pianoforte non era il risultato di
ispirazione ma di un lavoro lunghissimo, e non vedo perché dovrebbe essere
offensivo pensare di Puccini lo stesso.
Il lavoro di creazione dell’opera veniva svolto insieme ai
librettisti e, almeno fino a Butterfly, con Giulio Ricordi, che in tutto questo
processo aveva il ruolo che oggi noi chiameremmo di “produttore”: colui che
anticipa i soldi, organizza il team creativo e coordina la creazione del
lavoro. Puccini, abbiamo visto, aveva l’abitudine di scrivere lettere e
cartoline a tutti. Siccome con queste persone poteva occasionalmente lavorare
dal vivo nella stessa stanza, ma più frequentemente a distanza e ognuno inviava
il suo contributo da casa, è un po’ come se avessimo installata una cimice in
casa Puccini che ci permette di vedere, giorno per giorno, come l’opera viene
scritta. E’ vero che l’epistolario non ci è arrivato completo; le lettere in
parte o sono andate perse o sono di proprietà privata per cui non se ne conosce
l’esistenza o non ne è consentito l’accesso. Ma, per esempio, tutte le carte di
Luigi Illica sono rimaste alla biblioteca di Piacenza, che con questo lascito è
diventata la proprietaria del fondo pucciniano più esteso del mondo, e da queste
vediamo la scrittura delle tre opere più importanti.
Attenzione: dalla nostra cimice vediamo la scrittura del
libretto. Quando Puccini si chiude in casa a scrivere la musica,
preferibilmente di notte seduto ad un pianoforte verticale che poi fu dotato di
una sordina speciale per far dormire i familiari, di fatto la nostra cimice è
spenta e non vediamo più come lavora. Ma la gestazione del libretto è talmente
laboriosa e dettagliata che già ci fornisce molte informazioni. E comunque
dagli invii dei fascicoli della partitura alla Casa Ricordi perché li passino a
copisti ed incisori possiamo stilare un calendario della composizione e dire,
spesso con l’approssimazione di pochi giorni, in qulae ordine e quando ogni
singolo passaggio è stato scritto.
Dopo aver preso un grosso abbaglio scrivendo l’Edgar su un
soggetto inadatto a lui, da Manon Lescaut Puccini prende il coraggio a due mani
ed incomincia ad intervenire pesantemente sui suoi librettisti. A volte la
composizione della squadra di creativi fu cambiata in corsa: sul libretto di
Manon Lescaut hanno messo le mani almeno sette persone e alla fine è stato
pubblicato come anonimo. Quando la Fanciulla del West era già a buon punto,
Puccini richiese perentoriamente che Zangarini si facesse affiancare da Civinini
con grave scorno del primo. – Giacosa, stanco delle continue revisioni che gli
venivano richieste, minacciò di ritirarsi dai lavori infinite volte. Giacosa
non si sentiva librettista ma giornalista e scrittore, le richieste di Puccini
gli facevano perdere infinito tempo ed interferivano con la sua attività
principale. – In almeno due casi, Bohéme e Butterfly, un intero atto che era
già stato sceneggiato e verseggiato non fu messo in musica, ribaltando il piano
drammatico dell’opera. Per Rondine, Adami disse di aver scritto l’equivalente
di sedici atti prima di contentare il maestro. Alcuni soggetti semplicemente
furono abbandonati dopo essere stati lungamente considerati ma senza che
venisse scritta una nota di musica: una Maria Antonietta lungamente progettata
da Illica, Gli Zoccoletti da un soggetto della scrittrice Ouida, Conchita dello
scrittore Loüys che poi fu messa in musica da Zandonai. Il soggetto di Tosca
era stato promesso a Franchetti e da Ricordi dirottato su Puccini, La Bohéme fu
scritta in competizione con quella di Leoncavallo. Non parliamo della
collaborazione fra Puccini e D’Annunzio, che gli propose a ripetizione quei
soggetti altisonanti che a Puccini attorcigliavano le budella, per cui
nonostante le pressioni di Ricordi i due non riuscirono mai a scrivere un’opera
insieme.
In particolare con Illica e Giacosa, si stabilisce una
divisione del lavoro: Illica è di massima lo sceneggiatore, che scrive uno
svolgimento dettagliato del soggetto in prosa e una traccia dei dialoghi.
Giacosa è il verseggiatore, che trasferisce questi dialoghi in versi. Illica ha
scritto da solo, sceneggiatura e versi, diversi altri libretti (Iris ed Andrea
Chénier, per esempio). Ma Puccini, che rispettava assai in Illica la capacità
di immaginare le situazioni sulla scena, aveva dubbi sulla musicalità dei suoi
versi (che un giornalista aveva soprannominato “illicasillabi”) e preferiva che
fosse Giacosa, con la sua pazienza certosina, a trovare le parole effettive che
i personaggi avrebbero cantato. Giacosa a mio avviso ha fatto un bellissimo
lavoro, alcune delle sue espressioni (“che gelida manina”) sono entrate
addirittura nel linguaggio corrente. Giacosa muore dopo Madama Butterfly;
Illica accettava di essere appaiato a Giacosa che era un personaggio di
caratura indiscutibile, ma non ad altri. Per cui Puccini terminerà la
collaborazione con Illica non volendo lavorare con lui da solo. – Non era
facile lavorare neanche con Giacosa; un punto costante di rottura era questo:
se Puccini metteva solo parzialmente in musica i versi di Giacosa, questi
avrebbe voluto che sul libretto a stampa in vendita al pubblico fosse
trascritto il suo lavoro per intero, nel suo equilibrio poetico autonomo, e non
solo i versi scelti da Puccini. Anche se in generale non veniva accontentato,
questo spiega perché occasionalmente i libretti stampati da Ricordi non siano
esattamente identici al testo della partitura.
Puccini era una dannazione per i suoi librettisti. Di norma
non iniziava a scrivere musica fino a quando non aveva un testo tendenzialmente
definitivo di tutto l’atto sul quale doveva lavorare. Dopo di che richiedeva, secondo l’andamento
della composizione, continue modifiche, arrestando la composizione dell’opera
fino a quando non tornava indietro il nuovo testo e quindi costringendo i
librettisti a fare le corse. In un caso famoso Giacosa si rifiutò di continuare
a cambiare le parole de La Bohéme, fu convocato da Ricordi che gli suonò al
pianoforte il primo atto che era l’unico già composto. Giacosa rimase senza
fiato, disse che finalmente aveva capito le ragioni di Puccini e tornò al
lavoro.
Sono relativamente rari i casi in cui è stata scritta prima
la musica e poi adattati sopra i versi. Che io sappia, sono un paio: il valzer
di Musetta nella Bohéme, per cui a Giacosa furono mandati dei versi provvisori
perché ne scrivesse sullo stesso metro (la traccia iniziava con “Cocoricò,
cocoricò bistecca” che diventa “Quando men vo, quando men vo soletta”); e la
romanza di Cavaradossi “E lucean le stelle” dove Puccini scrisse un testo guida
provvisorio, lo mandò perché fosse scritto un testo migliore sullo stesso
metro, e alla fine conservò per la maggior parte le parole che aveva scritto
lui stesso.
Meno chiaro, scrivevo più sopra, è il processo della
composizione musicale. Ci sono avanzati alcuni manoscritti in forma di abbozzo
che potrebbero chiarirlo, ma non sono molti e spesso sono diventati souvenir
privati e non sono accessibil. Forse in soffitta a Torre del Lago ce ne sono
altri che gli eredi non hanno mai fatto vedere. – In una prima fase Puccini
compone o un atto intero o comunque una delle macroscene che lo suddividono; in
una seconda fase si mette a tavolino e “strumenta” la musica già scritta, cioè
redige la partitura completa per orchestra dall’abbozzo precedente; questa seconda
fase è relativamente più meccanica della prima, per cui può capitare che
Puccini faccia la strumentazione di un atto mentre interi pezzi dell’atto
successivo sono ancora da buttare giù in abbozzo. – Questo è il motivo, per
esempio, per cui abbiamo Turandot sostanzialmente completa tranne l’ultimo
quarto d’ora. In attesa di risolvere il problema del finale, Puccini completò
la partitura fino a tutta la morte di Liù, lasciandoci un troncone comunque in
stato definitivo ed eseguibile.
Le opere di Puccini, come quelle di Wagner, sono
“durchkomponierte”, cioè sono composte senza interruzione nella continuità. Il
maestro di Puccini, Ponchielli, scriveva ancora opere divise in numeri, arie
duetti pezzi d’insieme, etc. ; Puccini lascia ovviamente ad ogni personaggio un
momento di esprimersi, ma la struttura di ogni atto è continua. (Puccini, però,
non è Wagner, e furbescamente ogni tanto lascia un attimo di pausa per un
applauso, per esempio dopo le arie di Rodolfo e Mimì; dove non lo lascia, come
per esempio dopo “E lucean le stelle” e dopo “Nessun dorma”, lo spazio se lo
prendono i direttori).
E’ da notare che a Puccini interessa più la struttura
globale dell’atto che il momento di espressione musicale o la soddisfazione del
singolo cantante. Puccini per molto tempo ha considerato di togliere da Tosca
“Vissi d’arte” perché rallenta l’azione. Per molto tempo Manon si è
rappresentata senza “Sola, perduta e abbandonata” per abbreviare l’ultimo atto
che è monocorde, ed è stata restaurata al suo posto solo negli anni venti per
richiesta di Toscanini. Il monologo di Suor Angelica sul veleno dei fiori fu
cassato (anche se Ricordi, prudenzialmente, lo stampa ancora nell’incertezza
della versione definitiva). In altre parole stiamo parlando di togliere
all’interprete principale della serata il momento dove può maggiormente mettere
in evidenza le sue doti vocali: è che a Puccini più ancora della musica
interessava il montaggio della vicenda, la corretta tempistica dei momenti, il
catturare l’attenzione del pubblico senza allentare mai la tensione. Puccini
lavora in maniera cinematografica, per questo le sue opere risultano così
vicine alla nostra sensibilità; e per questo tanta parte del lavoro doveva
essere spesa con i librettisti.
Un paradosso è che Puccini si tormentò tutta la vita per
cercare di essere al passo con i tempi temendo di essere considerato un
passatista, quando viceversa il taglio delle sue opere è così moderno. Ho
scritto: cinematografico, ma non è a mio avviso Puccini ad anticipare il cinema
quanto il cinema a copiare il taglio pucciniano. Negli anni trenta il cinema
soppianta l’opera non solo come forma di spettacolo di massa, ma soprattutto
come luogo dove si costruiscono le grandi narrazioni. Contemporaneamente la
politica razziale di Hitler costringe un discreto gruppo di registi, scrittori
e musicisti tedeschi e austriaci all’esodo verso gli Stati Uniti; quelli che di
loro lavorano nel cinema ad Hollywood, inevitabilmente vi riciclano l’idea di
spettacolo di cui avevano avuto esperienza in patria nei teatri d’opera. Un
esempio potrebbe essere Erich Wolfgang Korngold, che fu letteralmente pupillo
di Puccini che lo dichiarò essere il più promettente dei giovani compositori
austriaci. Riparato in America dopo il 1934, passò il resto della sua vita a
scrivere colonne sonore di stampo pucciniano per il cinema.
Quando la partitura, o almeno una sezione importante di
essa, era terminata, veniva convocato a casa Puccini il Carignani che ripartiva
dall’inizio e stendeva lo spartito canto/piano, che ai fini della pubblicazione
era essenziale: è lo spartito di lavoro di cantanti e registi, è lo spartito
che viene messo in vendita al pubblico generale. In qualche caso ci fu tempo
abbondante per allestire i materiali a stampa dell’opera, nel caso di Butterfly
che fu completata pochi giorni prima dell’inizio delle prove i cantanti
ricevevano fogli staccati provvisori ed imparavano l’opera man mano che il
Carignani era in grado di consegnarne una sezione.
Un discorso a parte meritano le revisioni delle opere: a
parte Turandot che non ha neanche fatto in tempo a completare, e con l’estremo
di Butterfly e Rondine dove le riscritture sono sostanziali, Puccini ha
revisionato tutte le sue opere dopo averle viste rappresentate; con grande
scocciatura di Ricordi, che ogni volta doveva buttare via la tiratura passata e
far modificare le lastre di incisione. Da capo, quello che interessa a lui è il
montaggio, il fluire di una scena nell’altra. In Bohéme, che era quasi
perfetta, ha aggiunto in un secondo tempo la scenetta “Signorina Mimì, che dono
raro” e qualche alterazione sulla linea melodica del valzer di Musetta
(evidentemente il cocoricò non aveva dato i suoi risultati). Butterfly fu
sottoposta ad imponenti revisioni immediatamente dopo il suo insuccesso, ma per
qualche anno Puccini continuò ad aprire e chiudere tagli fino alla versione per
Parigi – dove il soprano madame Carré desiderava risparmiarsi ed essendo la
moglie del sovrintendente aveva il suo peso – che diventa quella definitiva.
Chi legga lo spartito adesso ne vede ancora le ferite, che i numeri di
riferimento delle prove non sono più in sequenza a causa degli ampi tagli. In
Tabarro il momento centrale, il monologo di Michele, fu completamente riscritto
(da “Scorri, fiume” divenne “Nulla, silenzio”)
Se vi capita in mano qualche vecchio spartito di Puccini,
non è impossibile che rispecchi una versione diversa da quella finale; a volte
il lavoro di Casa Ricordi non è stato così scrupoloso e sono state messe in
commercio versioni già soppiantate; ma alcune opere, per esempio Manon Lescaut,
sono rimaste in vendita per molti anni in una versione poi sorpassata. Schickling
ha fatto un penoso lavoro non di catalogazione delle composizioni di Puccini,
che sono poche, ma anche delle singole versioni delle composizioni di Puccini,
che sono tantissime. A Lucca vorrebbero fare una edizione nazionale, con
aspirazione di edizione critica, delle opere di Puccini. Penso che si tratti di
una aspirazione forse irraggiungibile per diversi motivi; il primo, che tutti i
manoscritti tranne la Rondine che è andato perso, sono di proprietà di Ricordi
che ha piuttosto intenzione di fare una nuova edizione in proprio; secondo, che
il gioco delle infinite varianti rende estremamente difficile di approntare
l’edizione di alcune opere.
Prendiamo ad esempio la Butterfly in versione originale data
alla Scala qualche mese fa. Di essa avanza la riduzione per pianoforte che fu
data ai cantanti. Quando la partitura era ancora in stadio di manoscritto,
Puccini se la riprese indietro e per approntare l’edizione di Brescia vi
scrisse sopra le correzioni, tolse alcuni fascicoli, ne aggiunse altri –in
definitiva distruggendo la prima edizione. Una edizione critica di stampo
musicologico segnalarebbe le correzioni pubblicando i testi accertati. Ricordi
invece pubblica edizioni che devono praticamente andare sui leggii del
direttore e dell’orchestra, per cui hanno fatto aggiustare dal revisore le
correzioni che si inferiscono dalle correzioni dell’autografo e dal confronto
degli spartiti per pianoforte delle diverse edizioni, ma alcune cose non sono
più disponibili in originale e sono state ricostruite. Quindi un lavoro
sostanzialmente diverso. A causa del sostanziale conflitto fra queste due
impostazioni – una edizione musicologica si vende a studiosi e biblioteche, una
edizione pratica si affitta ai teatri e genera incassi – io stimo improbabile
che si possano ricomporre le rispettive aspirazioni delle due edizioni.
Qualche osservazione di stile per terminare. Non tutto
quello che ha scritto Puccini è di uguale valore. E in particolare chi scrive
per il teatro, come diceva Verdi, qualche volta deve avere il coraggio di non
fare musica. Per esempio una situazione potrebbe avere più risalto se è
preceduta da materiale di taglio neutro.
In Puccini ci sono pagine ispirate. I dieci minuti
dall’entrata di Mimì nella Bohéme ci mostrano due persone normali – come me,
come voi – che conversano, ma soffuse di una tale grazia e di una tale luce
interna da far sembrare poetica ed ispirata la realtà di tutti i giorni. Strauss
che scrisse intere ore di canto di conversazione a mio avviso non riesce mai a
raggiungere il livello di questi dieci minuti. – Viceversa tutto l’inizio del
IV atto fino a quando, come una lama, Musetta spalanca la porta, mi sembra più
opera di mestiere che di ispirazione. E forse è giusto così: a maggior ragione
quando la porta si spalanca avvertiamo un immediato cambio di passo. – Ci sono
poi delle parti, non molte, dove sia l’ispirazione che il mestiere cedono un
po’ il passo. E’ necessario che ci siano per l’evoluzione della trama, ma ci
dicono poco musicalmente. Penso a quello che succede dopo “Ecco il bacio di
Tosca” oppure “Presto su, Mario!”. – E’ tale il livello globale dei lavori che
perdoniamo volentieri al maestro qualche trascuratezza; ma proprio l’impostazione
globale dei suoi lavori, tanta ciccia e poco grasso, che rende questi momenti
meno felici più evidenti.
Trovo che spesso Puccini sia in difficoltà nell’ultimo atto
delle sue opere. Talvolta si è trattato di difficoltà legate sia allo stress
della sua vita affettiva, sia allo stress di portare a termine il lavoro entro
una data prefissata per il suo allestimento. Nella maggior parte dei casi,
però, sono i librettisti che al momento di tirare i fili della vicenda per
farla convergere verso la fine, ne perdono la linea conduttrice. Gli stessi
Illica e Giacosa, la coppia di librettisti più grande del mondo, in tutte e tre
le opere sembrano arenarsi prima del finale. In Bohéme si incartarono su un
brindisi prima dell’arrivo di Musetta che Puccini finì per tagliare
impietosamente. In Tosca si intestardirono su un inno latino prima della
fucilazione di Cavaradossi che nella stesura finale è ridotto ad un moncone (“Trionfal,
di nova speme”). In Butterfly, la scena con Kate Pinkerton. Un altro esempio è
la scena de La Rondine dove Magda svela la sua passata vita: ai peggiori versi
del libretto corrisponde la peggiore musica dell’opera. In questi casi, se il
libretto non lo convinceva, Puccini diventava quasi incapace di scrivere musica
convincente lui stesso. Nella Turandot
poi, sono convinto che se i librettisti fossero stati capaci di proporre una
scena finale più accattivante, Puccini avrebbe finito l’opera prima del
precipitare della sua malattia.
Nessun commento:
Posta un commento