22/12/17

Epilogo su Cori

Ho iniziato con la storia di Cori/Corinna, la misteriosa amante di Puccini la cui identità fu soppressa, e il cui rapporto con Puccini provocò prima una crisi personale, poi una crisi familiare, e poi addirittura una crisi al vertice del mondo musicale italiano arrivando fino al livello del presidente del consiglio (questo non ve l’avevo detto). Ho scritto prima un articolo sulla storia di lei, poi un articolo su come Krausser e Schickling la hanno identificata in una sarta torinese, Anna Maria Coriasco, poi diventata una sorta di escort. Ma rimaneva una materia da trattare, che poi è la domanda che mi è stata più volte ripetuta: tutto questo alla fine che cosa importa?

Io penso che questo importi. Credo che nessuna donna abbia tanto condizionato la scrittura di una opera di Puccini come Cori ha condizionato la scrittura di Butterfly. Involontariamente, è stata la più importante di tutte. Ma spiegare il come è materia complessa.

Nella letteratura pucciniana è relativamente frequente l’identificazione di persone della reale biografia di Puccini con personaggi del palcoscenico. Per qualcuno, Minnie è Giulia Manfredi, Magda è Josi von Stengel, Liù è Doria Manfredi, Turandot e la Zia Principessa sono Elvira. Persino un autore tendenzialmente rigoroso come Schickling non resiste alla tentazione di identificare Cori in Madama Butterfly. Le somiglianze ci sono: come Butterfly, Cori è giovanissima ma esercita un mestiere vergognoso, va con un bellimbusto e viene da questo abbandonata. Secondo Schickling Puccini nel dipingere la figura del luogotenente Pinkerton è singolarmente ipocrita in quanto indirizza l’indignazione del pubblico verso dei comportamenti che, nella vita privata, erano i suoi stessi comportamenti. La povera Cori fu probabilmente tenuta buona con una promessa di matrimonio mentre svolgeva i suoi servizi sessuali, per essere poi scaricata per una vera moglie secondo quelle che erano le opportunità sociali.

Un po’ di vero c’è, per usare il linguaggio di Pinkerton. Ma si tratta di una lettura della vicenda a mio avviso molto rozza. Per trovare la verità non bisogna accontentarsi delle somiglianze esteriori, ma bisogna scavare di più il che non è facile perché si tratta di una vicenda che fu censurata e anche raccontata in maniera unilaterale. Ma la principale maniera di penetrare nel cuore e nella mente di Puccini è proprio approfittando dei momenti di crisi.


Ripartiamo quindi da zero con Cori e Puccini, ed atteniamoci ai fatti. Il primo fatto è che la relazione si sovrappone esattamente alla scrittura di Butterfly.

Puccini conosce Cori probabilmente ai primi di febbraio del 1900, in occasione di repliche di Tosca a Torino, solo tre settimane dopo la prima a Roma. Cori è uno pseudonimo che Puccini usa in diverse lettere dal 1900 in poi; solo nel 1903 la troviamo indicata come Corinna. Se Cori è davvero Maria Anna Coriasco, verosimilmente Cori è la forma breve di Coriasco, e Corinna deriva da Cori+Anna: uno dei soliti giochi di parole di Puccini. E’ piemontese di Saluzzo ma vive a Torino, figlia di una coppia di fornai, fa la sarta così come la sorella. Nel  febbraio 1900 ha compiuto da poco 17 anni, il che significa che è minorenne perché la maggiore età arriva a 21. Da due lettere intuiamo che Puccini se la porta a letto con ogni probabilità il 14 e il 22 febbraio 1900. Da un punto di vista legale l’età di lei non è un problema, perché la legge italiana del tempo fissa l’età del consenso al rapporto sessuale a 14 anni, sono forse problemi la grande differenza di età e di classe sociale fra lei e Puccini (che ha 41 anni appena compiuti). Quella che doveva essere una storia di sesso con una giovane ammiratrice degenera rapidamente, Puccini perde la testa e qualsiasi prudenza. Sappiamo che, approfittando di una assenza di Elvira, se la porta in casa a Torre del Lago nel fine settimana del 2 giugno 1900, con la complicità di Ferruccio Pagni detto “Ferro”e altri amici di Torre.  Un gesto che lascio a voi da interpretare. Puccini voleva esibirla agli amici? O farle vedere la casa nuova appena ristrutturata? O magari le aveva promesso che un giorno in quella casa ci avrebbe vissuto con lui?

Il prossimo episodio è narrato da Marotti ma l’origine è Pagni che ovviamente sa molto più di quel che racconta. Puccini è in partenza dalla stazione di Pisa per Parigi, Cori lo accompagna almeno fino a Genova. Il treno è in ritardo e si intrattengono insieme in stazione dove un anonimo vede Puccini con una donna e avverte la sorella di lui, Nitteti. La Nitteti – potete chiedervi se ci era o ci faceva – scrive una letterina a Puccini rimproverandolo per essere passato da Pisa con sua moglie senza venire a fare visita. Se guardiamo la cronologia di Schickling, verso il 5 giugno Puccini parte davvero per Parigi, ed è evidentemente quel giorno che succede l’incidente alla stazione di Pisa. Da Parigi Puccini prosegue per Londra dove arriva il 13. Il 21 giugno va a vedere la “Madame Butterfly” in prosa di Belasco – la vede perché è in inglese e non ne capisce una parola, ma rimane entusiasta del soggetto anche solo da punto di vista visivo: la scena dell’attesa di Butterfly dura 15 minuti di effetti di luce senza dialoghi. Incomincia a lavorarci sopra con la testa. Torna indietro passando da Parigi e Torino (chissà perché da Torino, e raccomandando a Illica di dire che era ancora a Parigi) e il 28 luglio torna finalmente a Torre del Lago. Che cosa è successo nel frattempo? Elvira è tornata prima di lui, nell’assenza di Puccini ha aperto la lettera di Nitteti e si è posta una domanda: chi era quella donna alla stazione di Pisa con lui? Puccini trova una Elvira incontenibile; inventa scuse su scuse ma non serve a niente, agli amici dirà che i graffi sul viso sono dovuti ad un incidente di caccia.

La storia di amore fra Cori e Puccini nasce quindi contemporaneamente all’idea di Butterfly; e ambedue si chiuderanno in sincrono, dopo molte peripezie, alla fine del dicembre 1903. Ora, c’è chi ha tenuto dalla corrispondenza privata la cronologia della storia di Cori (è stato Krausser); e chi ha tenuto dalla corrispondenza di lavoro con Illica, Giacosa e Ricordi la cronologia della scrittura di Butterfly (una pubblicazione assai massiccia del centro studi di Lucca). Si potrebbe provare a mettere le due cronologie in parallelo. Io l’ho fatto ma per un discorso significativo bisognerebbe spenderci diverse pagine.

Nell’anno 1901 il lavoro su Butterfly è molto lento e di fatto solo preparatorio, perché il libretto non è pronto. Dal punto di vista privato, la storia d’amore diventa un po’ una pantomima di incontri furtivi e di reazioni sempre più violente da parte di Elvira, che arriva fino ad inseguire ed a prendere ad ombrellate la signorina piemontese (se non ci fosse l’onnipresente Pagni la cosa potrebbe finire male). Elvira si sente franare il terreno sotto i piedi. Un matrimonio fra Puccini e Cori sarebbe teoricamente possibile, ancorché scandaloso perché lei nel 1901 compie 19 anni e lui 43, lui è il genio che il mondo invidia all’Italia e lei una sartina dei bassifondi, anche se Puccini la fa passare per maestra. Elvira viceversa non può costringere Puccini a sposarla, nonostante il figlio che hanno avuto, perché lei legalmente è la moglie di Narciso Geminiani finché morte non separi ed il divorzio, in Italia, non esiste.

Dalla fine del 1901 e per tutto il 1902 Puccini lavora sul primo atto di Butterfly, in particolare sulla lunghissima scena introduttiva (nella prima versione ancora più lunga) dove si definisce l’ambientazione dell’opera e il suo stile musicale che con la scusa dell’esotismo presenta un linguaggio armonico molto più ampio delle opere precedenti. Di nuovo, lavoro molto lento ma possiamo immaginare che in questa fase si definisca l’intera fisionomia dell’opera, da cui la necessità di procedere con i piedi di piombo. La crisi familiare subisce una escalation diventando una crisi lavorativa: Illica e Giulio Ricordi temono seriamente che la storia con Cori, dietro alla quale Puccini letteralmente ci finisce il cervello, possa bloccare non solo la scrittura di Butterfly ma anche chiudere del tutto la carriera musicale di Puccini. Per la Casa Ricordi sarebbe un disastro perdere l’erede di Verdi nel suo momento di maggiore rendimento. Ma penso che sia stata anche l’Elvira a chiedere disperatamente a Ricordi di intervenire: se non nel 1902, sicuramente l’anno successivo. Nel settembre 1902 comunque Elvira manda una persona a Torino per spiare la rivale. Sappiamo anche che una donna viene incaricata di andare a lezione di cucito da una sartina amica di Cori per carpirne le confidenze. E forse qui inizia ad uscire fuori qualcosa. Qualcosa che Puccini non sa.

Butterfly subisce una crisi a fine 1902 quando Puccini chiede ad Illica e Giacosa di buttare all’aria metà del lavoro fatto. Nel suo piano originale Butterfly aveva tre atti: matrimonio di Butterfly – un atto al consolato americano dove si svolge il cuore dell’azione – suicidio di Butterfly. Lasciando per buono il primo atto che a fine 1902 è già composto e strumentato, Puccini chiede di cassare l’atto del consolato e riscrivere un unico atto, sulla scia esatta del dramma di Belasco, con la graduale evoluzione di Butterfly fino al suicidio. Parte dei versi già scritti possono confluire nel nuovo atto, ma di fatto significa riscrivere il 50% del libretto. Illica ci sta, Giacosa brontola di più. Ricordi è preoccupato sia per Butterfly che per Cori.

Come sappiamo, nella notte del 25 febbraio 1903, Puccini rimane vittima di una “catastrofe automobilistica”; l’auto guidata dall’autista Barsuglia si ribalta in una curva circa dalla parte opposta del lago rispetto a Torre. Puccini rompe la gamba, viene medicato sul posto, il giorno successivo viene portato a casa caricando la lettiga su una chiatta. Le foto scattate in questa occasione sono le uniche in tanti anni dove si veda Elvira sorridente, anzi ghignante (Giacomo, finalmente mio!). Il giorno stesso, 26 febbraio, Elvira rimane vedova: terminato un periodo di 10 mesi prescritto dal codice civile, potrà finalmente sposare Puccini (in pratica, a partire dal gennaio 1904).

L’anno 1903 diventa un anno da pazzi: Puccini è bloccato a letto, non può più vedere Cori: con Illica paragona il regime casalingo a Regina Coeli. Gli leggono la posta. Iniziano le manovre di Ricordi, Illica, Elvira e anche delle sorelle Ramelde ed Iginia (la suora) per costringerlo a sposare Elvira e liquidare la piemontese. I parenti tutti hanno paura di non riuscire a tenere Puccini, che appena tornerà in piedi possa fare la follia di scappare per sposare Cori, e si rivolgono a Ricordi. Ricordi arriva fino ad andare personalmente dal presidente del consiglio Zanardelli per chiedere un decreto ad personam che esenti Elvira dall’attesa dei 10 mesi, ma Zanardelli rifiuta. Il 31 maggio Ricordi scrive a Puccini una lettera di ingerenza pesantissima nella sua vita privata, pressandolo a troncare il rapporto con Cori verso la quale sono indirizzate pagine e pagine di insulti. Puccini continua a tenere il piede in due scarpe fino a quando qualche anima buona gli fa capire una importante distinzione che forse gli era andata persa: quando Ricordi dà di “bassa creatura dagli istinti puttanieri” alla Cori, non è solo perché questa va a letto con Puccini. Cori ha istinti puttanieri perché va a letto con molti altri oltre Puccini, e Puccini incomincia a realizzarlo solo adesso. Ed è bassa perché viene da una famiglia impresentabile. Puccini la fa seguire da due investigatori per i mesi di agosto e settembre, in ottobre arriva il rapporto finale: Cori, in effetti, è una escort di un certo livello. Puccini, sempre geloso delle sue donne dalle quali non avrebbe tollerato la minima infedeltà, le dà il benservito. Lei si rivolge ad un avvocato minacciando una azione legale. Fino alla fine dell’anno ci saranno serrate trattative. Puccini subisce due colpi emotivi gravissimi: il primo, quando scopre che Cori lo ha ingannato, forse sono addirittura quattro anni che lo sta ingannando. Non era l’amore travolgente ma una cacciatrice di quattrini o forse di una superiore posizione sociale. Secondo colpo, l’amore naufraga nelle carte bollate di uno studio legale. Lei passa le lettere intime ad un avvocato, minaccia Puccini, forse lo ricatta. Forse gli investigatori hanno esagerato, sulle infedeltà si poteva passare sopra; ma questo è un colpo basso troppo grave.

Ora, in tutto questo caos Puccini non riesce a scrivere da marzo a giugno per impossibilità materiale di sedersi al pianoforte. Aggiungiamo anche il tempo perso in un viaggio a Parigi in settembre, camminando con le stampelle, e vediamo che il lunghissimo secondo atto di Butterfly è stato scritto in pochissimo tempo, cinque, massimo sei mesi, nelle condizioni ambientali e psicologiche più pressanti. Butterfly viene terminata il 27 dicembre, Cori viene liquidata con un indennizzo negli stessi giorni: su di lei cadrà l’oblio, nessuno ne parlerà mai più, solo Elvira avrà il coraggio di rinfacciare a Puccini il suo comportamento molti anni dopo. Il 3 gennaio Puccini sposa Elvira con cerimonia riservatissima; il 7 iniziano le prove di Butterfly alla Scala.

L’eredità di Cori è pesante: ancorché da adesso legalmente uniti, Puccini ed Elvira non troveranno più un modus vivendi. Lei gli leggerà la posta fino alla morte e lui si farà mandare la posta compromettente a una casella postale di Viareggio. Dovrà sempre ricordare agli amici che cosa può essere scritto a Torre del Lago e che cosa non può essere scritto. Lei gli frugherà la scrivania, i vestiti, lo spierà, lo terrà sotto osservazione per sempre. E lui diventerà sempre più diabolico nell’aggirare il regime di polizia.

Non saprei dire che cosa lasci Puccini a Cori, a parte un po’ di quattrini in cambio del silenzio. In tutta la vicenda non saprei dire se sia stata lei a sfruttare lui o viceversa. Forse tutte e due le cose insieme. In ogni caso, era un amore impossibile fin dal primo minuto.


Un discorso che troviamo spesso riferito dagli amici di Puccini, è che Puccini diceva che per trovare l’ispirazione musicale aveva bisogno di essere innamorato. Qualche volta arrivava a teorizzare che l’artista dovesse cambiare moglie ogni cinque anni per preservare l’ispirazione. All’Elvira scriverà nel 1915 la famosa lettera dove la invita a non rompere le scatole, per gli uomini cacciare le donne è uno sport, lui ha bisogno di coltivare i suoi giardinetti, etcetera.

Questi discorsi, a mio avviso, sono semplicemente una copertura, o meglio una forma di autoassoluzione. Io non ci credo per niente: chiacchere. Puccini è tendenzialmente un depresso con periodi di iperattività. A volte è la stessa depressione che lo spinge all’iperattività. Quando inizia la relazione con Cori è perché a 41 anni si sente vecchio, soprattutto da un punto di vista sessuale, ed una notte d’amore senza freni con una minorenne disinibita è la cura a questa paura latente di invecchiare. Ma se leggiamo le non molte lettere d’amore che di Puccini sono avanzate, vediamo una costante: che alla lunga l’amore su Puccini ha un effetto deprimente. Ne rimane completamente travolto, si riduce come uno straccio; e diventa triste, triste, triste. Questo della tristezza è un vero ritornello che troviamo continuamente in Puccini, in tutte le epoche, in tutte le situazioni, specialmente quando si rivolge ad una donna;  probabilmente Puccini trova più ispirazione nella tristezza che nell’esaltazione.

Come si riduce Puccini per Cori? Ce ne dà un ritratto, ai limiti dell’esilarante, Giulio Ricordi discutendone con Illica, 2 dicembre 1902:

“Puccini è un uomo perduto per l’arte e per gli amici!.. Tutto, ciò prepara: lo sguardo, il floscio dei muscoli mascellari, i movimenti del corpo, l’irrequietezza dello stare, la noia improvvisa!”

“Il floscio dei muscoli mascellari”: voglio prenderla letteralmente. Significa che a furia di finirsi a letto con la ragazzina, a Puccini gli rimane la bocca aperta. Provate ad immaginarvi il ritratto. Eppure, questo è l’uomo che in quei giorni ha appena terminato il suo duetto d’amore più rovente, il duetto che un Gustav Mahler giudicherà addirittura osceno per la sua intensità; il duetto che non riuscirà più ad eguagliare, la morte se lo porterà via mentre inutilmente cerca di scriverne un altro. Sotto questo punto io trovo che Cori sia rimasta per sempre stampata non nella vicenda teatrale di Butterfly, ma nella filigrana della musica. Un’impronta che nessuno potrà cancellare, e molto più profonda di una somiglianza esteriore della vicenda.

Leggiamo un altro passo di Ricordi, dalla lettera gravissima del 31 maggio 1903:

“Ed una bassa creatura, dagli istinti puttanieri, si impossessa del cuore, della mente, del corpo di sì eletto artista, e con oscene voluttà che lo avrebbero condotto alla morte morale, poi alla fisica, lo fa suo trastullo così da apparire ai di lui occhi come fata benefica, amorosa, ispiratrice!”

La morte fisica significa che Ricordi aveva paura che Cori avesse attaccato la sifilide a Puccini – sospettiamo che Ricordi sapesse di Cori qualche cosa che Puccini ancora non sapeva – ma le parole che seguono sono chiare: Cori è la fata ispiratrice di Puccini.  Questo Puccini lo deve aver detto chiaramente a Ricordi. Da un altro passo sappiamo che Puccini ha fatto leggere a Ricordi le lettere d’amore che Cori aveva scritto.

Cori è l’ispiratrice anche del peggio di Butterfly. Tutta la scena fra Suzuki, Pinkerton e Sharpless, dopo la veglia di Butterfly, che comunque sarà riscritta più volte, è il momento meno a fuoco dell’intera opera. Soffre certamente qualche disparità di libretto, ma viene anche scritta nel momento in cui Puccini scopre di essere stato ingannato da Cori (“di quella là avrei da raccontarti tante cose … brutte non ti dico i dolori inenarrabili miei”, scrive a Illica). Coincidenza? Sotto la pressione della scadenza – a settembre viene fissata la prima alla Scala, a dicembre l’opera deve essere finita in ogni modo - certamente Puccini ha lasciato correre anche soluzioni non ottimali. Fosse stato più lucido, o avesse avuto più tempo, questa scena forse sarebbe stata migliore. Per fortuna dopo aver buttato su carta questa scena, ormai è rimasta da fare solo la strumentazione del secondo atto, lavoro più di meccanica musicale che di creazione.

Anche se l’accordo pecuniario con Corinna – il prezzo di riavere indietro lettere d’amore dove si può solo immaginare che cosa possa esserci scritto – arriva solo a fine dicembre, il rapporto fra Cori e Puccini è emotivamente chiuso dal 24 novembre, giorno in cui arriva la raccomandata dell’avvocato di lei. Puccini è distrutto. Ma in qualche giorno riesce a superare la crisi: lo scrive ad Illica il 28 novembre.  Forse qualche cosa conta che il 27 sia stato definitivamente condannato per oltraggio al pudore il padre di Cori, e questa verosimilmente non lo potrà ricattare più di tanto. Anche le fosse stato promesso il mondo, dopo una condanna così disonorevole quale tribunale riconoscerebbe come vincolanti le promesse? Ma ormai è rimasto solo da strumentare la seconda parte del secondo atto, lavorando a rotta di collo. Non dico a mente fresca, ma se non altro avendo chiuso tutte le ambiguità che Puccini si era portato dietro quattro anni.

………….

Come vedete, non è un discorso lineare e semplice da seguire. Colpa di Puccini, che era una persona vera, non facile, con comportamenti spesso contraddittori e la tendenza a cacciarsi dentro guai troppo grandi per lui. Un Puccini così può non piacere, lo ammetto. Ma lui era così, e io trovo più interessante il Puccini vero di quello agiografico. Come in tutto questo marasma, sia riuscito a tenere la barra del timone ferma e a darci non solo una delle sue migliori opere, ma quella che lui stesso amava sopra le altre e non si stancava mai di risentire, non lo so spiegare.

Però ripensate ad una cosa: Puccini esce dall’anno 1903 esausto. In un certo senso, non sarà mai più il Puccini dei tempi migliori; dopo tre opere in fila quali Bohème, Tosca e Butterfly, non riuscirà più ad azzeccare successi così travolgenti. Scrive il 25 aprile 1904 a Illica: “Se metto le mani al piano sento schifo! qualunque accordo, qualunque nota di canto mi sembra cosa fatta e rifatta, fritta e rifritta”.

A parte gli aggiustamenti di Butterfly, da giugno 1904 al maggio 1908 – quattro anni interi – Puccini scrive in tutto dieci pagine di carta da musica: una romanza da salotto per una incisione su disco e il piccolo Requiem in memoria di Verdi che più piccolo non poteva essere. Dieci facciate in quattro anni. - Puccini la prossima opera la finirà nel 1910, e dopo essersi cacciato in un guaio peggiore di Cori: Doria. Per tornare a scrivere qualcosa al livello di Butterfly, ci metterà forse quindici, forse venti anni. La profezia di Giulio Ricordi, che Puccini andasse perso per l’arte se non metteva la testa a posto, funzionò a rovescio: Puccini mise la testa a posto, liquidò la creatura dagli istinti puttanieri, regolarizzò la posizione della sua compagna e di suo figlio. Ma per l’arte andarono persi almeno parecchi anni.

Un cinico potrebbe persino dubitare che l’interesse commerciale della casa Ricordi sarebbe stato meglio servito da un Puccini con una moglie giovane e brillante, ancorché di dubbia reputazione. Se l’autista Barsuglia avesse preso la curva giusta, poteva finire davvero così.




Una ultima considerazione. Forse si sarà capito, ma io provo simpatia per Cori, e anche un po’ di pietà. La prima perché le cattive ragazze destano l’ammirazione maschile più delle buone ragazze. La seconda perché, se davvero si tratta di Maria Anna Coriasco, il destino è stato feroce facendola sopravvivere fino al 1961, cioè per 57 anni di anonimato dopo tre anni di vita ruggente. Una punizione esagerata rispetto a tutte le colpe che può avere avuto, con l’attenuante che un poco anche grazie anche a lei abbiamo una delle opere più belle ed amate di tutti i tempi, che dopo più di un secolo ancora commuove il pubblico sera dopo sera. Io spero davvero che da qualche cassetto un giorno salti fuori qualcosa che ci parli di lei per due minuti. Se lo sarebbe meritato.

Antonio Puccini

Antonio Puccini detto Tonio, figlio di Giacomo ed Elvira Bonturi/Gemignani, nasce il 23 dicembre 1886 a Monza, in una casa di ringhiera di quello che oggi si chiama Corso Milano. Dato che Puccini era stato chiamato Giacomo in memoria del suo antenato dallo stesso nome (1712-1781), non stupisce che abbia chiamato suo figlio Antonio in memoria dell’Antonio (1747-1832) figlio di detto Giacomo. Tutti maestri di cappella del Duomo di Lucca. Ricordiamo che mamma Elvira era sposata, ma non con Puccini: quando la gravidanza non si potè più tenere celata fu organizzata la fuga degli amanti da Lucca e la persona che più contribuì ad organizzarla fu Ferdinando Fontana, il librettista de “Le Villi” e “Edgar”, che in quegli anni fu l’amico più fedele di Puccini. Fontana prima sistemò gli amanti vicino alla sua casa di Caprino Bergamasco, poi trovò la casa di Monza, più defilata rispetto a Milano. Almeno nella fase iniziale, Puccini ed Elvira avevano paura di una reazione, se non violenta, almeno decisa di Narciso Gemignani, legittimo marito di Elvira, che in teoria avrebbe potuto farla arrestare quale adultera per l’abbandono del tetto coniugale. Per cui furono messe in giro voci false ad arte, che Elvira era scappata a Palermo. Puccini nelle sue lettere alla famiglia – e le sue sorelle non è che approvassero gran che l’idea di fare un figlio con Elvira – mostra una certa paura che a Gemignani possa arrivare una traccia di dove sia finita Elvira: raccomanda strettamente di tenere segreto il suo indirizzo, di non nominare neanche Monza e di impostare tutta la corrispondenza alla stazione di Lucca, dove la cassetta veniva vuotata da personale della ferrovia dalla disciplina paramilitare, piuttosto che in città dove le cassette venivano svuotate da postini lucchesi sulla cui riservatezza non c’era da scommettere.

Di Antonio Puccini, tutto sommato, non si sa molto. E’ una figura piuttosto pallida – sua figlia Simonetta, recentemente scomparsa, ha più ostacolato che favorito gli studi. Per esempio Giorgio Magri, che ha scritto un libro sull’uomo Puccini piuttosto documentato e con molta simpatia nei confronti del compositore, ha dovuto sopprimere l’intero capitolo sul figlio proprio per l’opposizione di Simonetta. Vedo che viceversa Schickling ha filtrato diverse notizie su Antonio recentemente emerse, ma lo ha fatto in pubblicazioni tedesche e non in Italia.

L’infanzia di Antonio Puccini non deve essere stata felicissima. Come ho già scritto altre volte, almeno fino al 1893 la situazione patrimoniale di Puccini era precaria, e più di una volta la famiglia si è dovuta scomporre perché Puccini non aveva abbastanza soldi da dar da mangiare a tutti. Ma mentre Fosca, benché affidata alla madre fuggitiva, era figlia legittima di Elvira e del Gemignani ed accettata da tutti, Antonio era il figlio della colpa e anche alcuni parenti non volevano avere a che fare con lui, benché fosse solo un bambino. Una volta Elvira cercò riparo dalla sorella Ida a Firenze ma non si potè fare per l’opposizione della madre di ambedue. Da un’altra lettera si capisce che Ramelde Puccini, sorella minore di Giacomo, aveva rifiutato di tenere Antonio in casa sua, anzi non voleva neanche vederlo, e alla fine se lo era preso in casa la sorella maggiore Tomaide; e che il tenore di una precedente lettera di Ramelde andata perduta deve essere stato particolarmente sgradevole. Sappiamo che Antonio ha passato alcuni anni dell’infanzia in un collegio di Varese. Lo troviamo poi a Torre del Lago quando Puccini vi si trasferisce con Elvira e Fosca, per rientrare poi in collegio a San Gallo, credo nel 1902. Il motivo lo spiega Schickling da una lettera tuttora inedita e segretata: Puccini era un genitore severissimo, e scoprendo a letto il sedicenne Antonio con una cameriera, si era arrabbiato moltissimo, aveva cacciato la cameriera e chiuso Antonio in collegio. I lettori più attenti osserveranno che nel 1902 Puccini andava a letto con Cori, che ad occhio di anni doveva averne poco meno di 20, ma evidentemente Puccini non insegnava con il buon esempio.

Antonio era assolutamente negato per la musica. In un celebre aneddoto Puccini padre gli regala un violinetto e dopo qualche giorno lo trova adattato a barchetta a galleggiare sul lago di Massaciuccoli; al che Puccini capisce che la gloriosa stirpe dei Puccini musicisti sarebbe terminata con lui. Puccini cercò di avviare il figlio agli studi tecnici, iscrivendolo alla prestigiosa università tecnica di Mittweida in Sassonia. Schickling ha ritrovato tutti i documenti del fallimentare corso di studio di Antonio; sembra che oltre alle difficoltà della matematica non capisse più di tanto il tedesco delle lezioni (ma per altre cose il tedesco Antonio lo capiva più che bene). L’abbandono degli studi a Mittweida corrisponde con la separazione dei genitori in occasione dell’affare Doria Manfredi, quindi ai primi mesi del 1909: una ulteriore crisi da affrontare per Puccini padre, oltre al suicidio della cameriera e alla separazione dalla moglie. Antonio si trovò in questo caso schiacciato fra due genitori ognuno di personalità fortissima ed in conflitto fra di loro. Rifiutò anche gli impieghi nel campo allora particolarmente glamour dell’automobilismo che il padre gli aveva trovato e considerò anche di emigrare in Africa, di fatto poi si riunì con la famiglia. Apparentemente Puccini pensava di attrarre l’attenzione del figlio con studi o lavori in un campo di avanguardia, ma si vede che Antonio era refrattario a questi stimoli.

Un successivo passaggio è emerso abbastanza di recente. Ne parla Puccini in alcune lettere a Sybil Seligman che però furono pesantemente censurate da Vincent nel suo libro. Le lettere sono andate in asta neanche un mese fa da Sotheby a Londra e le riproduzioni nel catalogo, sebbene incomplete, sono abbastanza leggibili. Antonio andò militare durante la guerra, ma grazie all’influenza del babbo ottenne un posto abbastanza tranquillo nelle retrovie. Tornato a casa per una licenza nel 1918, tentò il suicidio “per una malafemmina” bevendo laudano.  Altrove la stessa signorina è descritta come “una poco di buono”. Puccini scrive a Sybil che il figlio è un debole, ma è un giudizio ingeneroso considerato che per reggere un padre e una madre simili, nemmeno singolarmente ma in coppia, sarebbe stata necessaria una personalità di forza eccezionale. Ad Antonio si può dare la colpa di essere stato un ragazzo normale, probabilmente non troppo brillante, in una famiglia dove di normale non c’era nulla e con un padre anche troppo brillante. Puccini faceva leva sulla sua posizione e sul cospicuo patrimonio per cercare di risolvere i problemi inclusi quelli di Antonio, ma evidentemente non tutti i problemi si possono risolvere a base di soldi e raccomandazioni. Abbiamo motivo di credere che Elvira fosse molto materna nei confronti dei figli, però i conflitti ricorrenti con il marito mettevano Antonio in posizione imbarazzante.

Non sappiamo chi fosse la malafemmina, sappiamo che Antonio aveva il progetto di sposarsi contro il volere del padre più o meno intorno al 1920 – ignoriamo se la prescelta fosse la stessa malafemmina di prima o un’altra giovane, ma il progetto sfumò per la prematura morte di lei; non possiamo certo dire che Antonio fosse fortunato. Troviamo qualche cenno di questo in una lettera a Giulia Manfredi in cui Puccini si dichiara molto contrariato dall’ “affare di Tonio”: evidentemente la Manfredi sapeva esattamente di che cosa si trattava, e così pure Puccini sembrava fidarsi più di lei che del figlio.

Dopo il 1920 Antonio interpretò il ruolo del figlio fedele, il “signorino” come lo chiamava la servitù. A lui spetta l’ingrato compito di ricevere la diagnosi del tumore alla gola che era in pratica una sentenza di morte, che venne tenuta nascosta sia a Puccini che ad Elvira. Antonio accompagna Puccini nel suo ultimo viaggio, raggiunto solo in extremis da Fosca che era rimasta a Milano ad accudire Elvira che pure non stava bene.

Dopo la morte di Puccini Antonio rimane erede universale, sia della sua quota che poi di quella di Elvira. Ha una figlia illegittima da una ballerina, non riconosciuta, e sarebbe la signora Simonetta nata nel 1929 e scomparsa la scorsa settimana. Nel 1933 sposa Rita Dall’Anna; quando Antonio muore nel 1946, senza figli legittimi, la signora Dall’Anna rimane erede universale di Puccini.

Quello che succede dopo ve lo racconto ma non sono sicuro di averlo capito del tutto, tanto è complessa la vicenda. L’eredità Puccini è un pozzo senza fondo perché tuttora ci sono opere (Trittico e Turandot) che generano proventi per diritti d’autore, le opere su libretto di Forzano saranno le ultime a scadere presumibilmente nel 2040. Quando muore la D’Anna nel 1979, ella lascia tutto in eredità a suo fratello Livio, anche lui senza figli; Livio nel morire lascia tutto al suo maggiordomo Pasquale Belladonna, che peraltro avendo la procura sul conto in banca aveva già speso cifre ingenti. Il maggiordomo, a sua volta, lascia erede un nipote.

La signora Simonetta nel frattempo inizia una battaglia legale per essere riconosciuta quale figlia di Antonio Puccini; nel 1973 ottiene il diritto di portare il cognome Puccini e un vitalizio a carico della D’Anna; ai sensi del nuovo diritto di famiglia che abolisce la distinzione fra figli legittimi ed illegittimi nel 1995 ottiene dal tribunale un terzo dell’eredità di Antonio, includendo in detta quota la casa di Torre del Lago. Se ho ben capito la D’Anna morendo aveva lasciato un testamento non registrato in cui una quota veniva destinata alla fondazione Puccini, nel 2008 la fondazione ottiene il riconoscimento del testamento e diventa pertanto proprietaria della villa di Viareggio (peraltro in pessime condizioni) e, credo, di una quota di diritti. Nel frattempo un cospicuo numero di parenti (22, credo) del Belladonna fanno causa al nipote che aveva ereditato sostenendo che all’epoca del testamento il Belladonna non fosse capace di intendere e di volere, questa causa si sta ancora trascinando ma una quota di diritti andrà anche in questa direzione. Le ultime notizie vogliono annullato l’ultimo testamento del Belladonna e resuscitato un testamento precedente, per cui si andrà alla spartizione fra i 22 nipoti. Una scena che sembra presa dal Gianni Schicchi: ma come sempre quando si tratta Puccini, nemmeno il più fantasioso degli sceneggiatori avrebbe potuto immaginare la realtà.

Molto più difficile sarebbe il discorso sull’eredità artistica di Puccini. Doloroso da dirsi, ma con l’arte di Puccini la famiglia ha poco da spartire. Nulla aveva da spartire Elvira, sostanzialmente estranea all’arte del marito; ancora meno Antonio. Anche Fosca, figliastra di Puccini, che in quella casa sembrava la più accorta, niente aveva da dire sui motivi profondi dell’arte del maestro. – Non che questo ci si aspetti dalla famiglia di un compositore: sono veramente poche le consorti di un compositore che ne siano in qualche maniera partecipi del processo creativo; i nomi che mi vengono in mente potrebbero essere Anna Magdalena Bach e Clara Schumann. Anche la Strepponi, che fu la moglie ideale per Verdi e per certi periodi ne fu quasi la segretaria, si ritraeva davanti al mistero di una mente che crea la musica dal nulla.

Paradossalmente, il processo creativo delle opere di Puccini era quasi un lavoro collettivo: Puccini si trovava al suo meglio quando poteva frustare i suoi librettisti e sfidarli a continui ripensamenti ed affinamenti. Molte sono le confindenze e le corrispondenze, sia con Sybil Seligman che con Illica, Ricordi, Giacosa, Adami, Forzano ed altri in materia sia di possibili soggetti che dell’effettiva stesura dei libretti. Però il momento della creazione della musica, che è un lavoro lento e sfibrante, di continui tentativi e ripensamenti – a maggior ragione per i compositori che si sono trovati a vivere in epoche dove il linguaggio musicale non sia standardizzato – è un momento troppo personale, che difficilmente può essere condiviso. Puccini spesso componeva in compagnia degli amici, che non lo disturbavano, purché ignorassero del tutto la sua presenza e non commentassero quello che stava facendo. Una cosa questa che, penso, può capire solo chi ha scritto musica in proprio.

Puccini non ha avuto allievi, a parte qualche lezione privata in gioventù, incluso forse qualche pericolosa lezione alla giovane signora Elvira, e l’ungherese Ervin Lendvai che gli fu mandato, visse anche a Torre del Lago ma che poi non si dedicò alla composizione. (Puccini era molto affezionato alla sorella di Lendvai, Blanka, fino a quando – apprendiamo da una lettera di Ervin – Elvira fece un bel repulisti gettando nella spazzatura tutte le lettere e le foto che Blanka aveva inviato.) Puccini non ha neanche successori; egli stesso fu scelto da Ricordi quale ideale successore di Verdi, ed ha ripagato ad usura la fiducia che la Casa gli volle accordare, ma in definitiva Puccini stesso chiude con Turandot un capitolo della storia della musica. Se un seguito si vuole trovare a Puccini, a mio avviso bisogna cercarlo più nel cinema che nella musica.

La signora Simonetta, sentendosi a pienissimo titolo unica erede di Puccini, da una parte ha compiuto delle operazioni meritorie – segnalo, per dirne due, le edizioni delle lettere di Fontana Puccini e di Puccini a Schnabl – e da quell’altra parte ha tentato di orientare le ricerche pucciniane in senso a lei gradito; per esempio chiedendo che alcune lettere non vengano pubblicate nell’edizione completa dell’epistolario - il che non ha comunque molto senso, visto che il testo della maggior parte di esse è disponibile da qualche altra parte. C’è da dire comunque che quando la maggior parte delle carte di Puccini erano nelle mani della Dall’Anna, è stato possibile agli studiosi accedervi con maggiore facilità che non negli ultimi tempi. Con la scomparsa di Simonetta si apre adesso una fase di incertezza ulteriore. Non mi è difficile predire che presumibilmente carte e beni immobili passeranno a qualche istituzione, bisogna vedere come questo avviene. E non mi è difficile predire che, non essendoci più nessuno titolato ad impedire la pubblicazione, non ci saranno probabilmente in futuro più segreti su alcuni passaggi biografici. Alcune cose, viceversa, non avranno mai risposta definitiva. Per esempio,  la questione se il padre del figlio di Giulia Manfredi fosse davvero Puccini non potrà essere risolta: la legge italiana non consente ai discendenti di un supposto figlio illegittimo di chiedere accertamenti. Lo stesso succederà con i discendenti di Renato Gemignani che qualcuno pure sospetta figlio di Puccini. C’è da dire che mi sembra che a Torre del Lago ci sia stata per molti anni una psicosi pucciniana, per cui era titolo di nobiltà vantare che la propria nonna era stata con Puccini, e mi sembra che i maschi si facessero crescere i baffi per poter vantare una somiglianza con Puccini che in almeno un caso è diventata parentela ipotetica. Simonetta ha troncato nettamente questi tentativi di allargare la discendenza Puccini.

In una cosa Simonetta ha seguito la tradizione di famiglia, già inaugurata da Rita Dall’Anna e dalla stessa Fosca: nominare Doria Manfredi non era gradito. Possiamo capire Fosca – le lettere alla Seligman che sono filtrate senza censura ci fanno sospettare che Fosca avesse a che fare con la fine di Doria – ma oltre un secolo dopo i fatti la censura non è accettabile. L’affare Doria pesa come un macigno non solo sulla vita di Puccini ma anche sulla sua creazione musicale. Non si può pretendere nel 21° secolo di fare come Adami e Gara che nel pubblicare i loro epistolari saltano un anno intero come se in quell’anno non fosse successo nulla.


Come ho già scritto tempo fa, Antonio fece allestire una sorta di mausoleo per i genitori al piano terreno della villa di Torre del Lago, e lui stesso riposa per sempre insieme con loro. Sia pace su una famiglia che, in vita, di pace ne ebbe poca. Leggo che a breve si aggiungeranno anche le ceneri di Simonetta. Con questo, dichiariamo chiusa la famiglia Puccini.

24/11/17

Le tre crazie


Da sinistra a destra: Alba detta Albina, Nina e Nelda Franceschini, nate fra il 1887 e il 1892, sono le figlie di Ramelde Puccini (1859-1912), sorella minore di Giacomo, e di suo marito Raffaello Franceschini, esattore delle imposte di Pescia; quindi Puccini era lo zio delle tre bambine.

Ramelde era la sorella preferita, quella alla quale Puccini scriveva più di frequente, con la quale si confidava o litigava o discuteva più spesso. Occasionalmente Puccini le mandava anche qualche lettera o poesia un po’ volgare (una sorta di riedizione della vicenda di Anna Thekla Mozart), oppure prendeva anche in giro pesantamente il marito, di solito giocando sulla differenza fra Ramelde, donna di forme piuttosto abbondanti, e Raffaello, ometto magro e nervoso. Numerosi i soprannomi affibbiati a tutti e due, notevoli due di Ramelde: “ramaiolo” (per assonanza con il nome) o, in un periodo di passione debussyana, “Melisande”; Raffaello, di solito, era chiamato “Vino”.

Tramite Albina molta della corrispondenza fra Ramelde e Puccina è stata resa nota, con questo fornendo informazioni familiari e biografiche molto preziose. Alla scomparsa della madre, Albina che nel frattempo era già una giovane signora ne eredita il ruolo di confidente dello zio.

Quando le tre sorelle Franceschini erano piccole, ogni lettera dello zio indirizzata al loro babbo o alla loro mamma terminava con un saluto a loro, di solito identificate con un soprannome collettivo. Il soprannome iniziale era “le tre grazie”.

“Saluta Ramelde e le 3 grazie” (26/5/1893 – idem 12/11/1893)

Dopo breve tempo le tre bimbe non furono più tre grazie, ma “tre crazie”. La crazia era una antica moneta toscana. La crazia venne coniata fino al principio dell’ottocento, ma rimase in circolo. All’Unità d’Italia, passando dalle lire fiorentine (che valevano di meno) a quelle italiane, il valore della crazia, ritirata dalla circolazione, fu stabilito in 7 centesimi di lira italiana. Pertanto le “tre crazie” assunsero il soprannome collettivo di “21 centesimi”.

“Saluta Ramelde e bacia i 21 cent” (23/9/1893 – idem, 30/10/1893

o anche forme più complicate:

“Saluta le signorine 3 via 7” (24/11/1893)
“Saluta Ramaiolo e 3 via 7” (3/12/1893)
“Addio saluti a Ramaiolo e 7  7  7  21” (5/12/1893)
“Ciao saluti caro Vino e 3:777” (8/12/1893)
“Saluta Ramelde e 3 x 7” ( 4/1/1894)

Qualche volta le bimbe vengono ricordate con forme tipicamente lucchesi: “Salute a te e alle piscione” (8/10/1893), “Saluta Ramelde e bambore” (17/1/1894), “Salutando la Femmina e pitorine” (9/3/1894).

(citazioni dal I volume dell'Epistolario a cura di Biagi Ravenni/Schickling ediz. Olschki)