28/01/18

Il caso Doria Manfredi

Dopo cinque giorni di agonia, il 28 gennaio 1909 muore Doria Manfredi ex domestica di casa Puccini che si era avvelenata il 23. A volte si riporta la data del 29 che fu erroneamente indicata sulla lapide di lei.

A differenza di quello che si legge nei libri, non mi sembra che l’episodio creasse un grande scandalo sulla stampa. Qualche articolo quando avvenne il fatto e qualche articolo sei mesi più tardi in occasione del processo ad Elvira. Se lo scandalo fu grande fra la gente di Torre del Lago, mi sembra di cogliere che i giornali che riportarono la notizia lo fecero sempre in tono tale da proteggere la figura di Puccini. Ho provato a leggere un po’ di giornali del 1909, che fra l’altro sono molto più piacevoli dei quotidiani di oggi; le questioni che imperversavano erano i postumi del terremoto di Messina (28 dicembre) con le diverse città d’Italia che facevano a gara per accogliere i profughi, o anche il rifiuto del governo austriaco ad autorizzare una università italiana a Trieste. Le non molte citazioni del caso Doria sono equilibrate da altrettanti tentativi di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla scrittura de “La Fanciulla del West” piuttosto che sui casi familiari del maestro.

Quello che è interessante è come i biografi di Puccini hanno riportato il caso Doria Manfredi.  Esiste una immagine ufficiale di Puccini che è quella tramandata dalla pubblicistica ufficiale sotto l’egida di Ricordi (Paladini e Adami, ma anche l’epistolario di Gara); immagine che poi è quella che era più gradita alla famiglia per ovvi motivi. In questa immagine la vita privata di Puccini non esiste, o al massimo è ridotta a qualche simpatico ed innocuo episodio. Nelle biografie ufficiali e in tutto quello che è stato pubblicato sotto l’egida della Ricordi, Doria Manfredi non è mai esistita. L’epistolario di Adami del 1928 salta gli anni 1908-09. La raccolta di lettere ben più ampia e comprensiva di Gara, che pure fu pubblicata nel 1958, cataloga il caso Doria, della quale non si fa nome né si racconta la vicenda, sotto generici “dissapori familiari”. Negli anni trenta - quindi a breve termine dalla scomparsa di Puccini -  l’unico che parla della morte di Doria Manfredi è Vincent Seligman nel suo libro, che però in Italia non fu mai né tradotto né pubblicato; non solo Vincent aveva personalmente conosciuto Doria in occasione delle visite alla famiglia Puccini, ma aveva in mano lettere di Puccini a sua madre Sybil Seligman molto esplicite e tali da capire perfettamente che cosa fosse successo. Nel pubblicarle (1938) scelse di tutelare in parte la figura di Elvira, anche lei recentemente scomparsa e soprattutto la figura di Fosca che era viva e vegeta, tagliando la maggior parte dei riferimenti. Solo recentemente si sono avuti i testi integrali di alcune lettere di Puccini alla Seligman che Vincent aveva sforbiciato, dalle quali risulta chiaro il ruolo di Fosca nel montare la fatale gelosia di Elvira contro la serva. A parte l’accertamento della causa ultima, Seligman racconta la storia di Doria con le parole di Puccini medesimo e con sostanziale fedeltà ai fatti. Ma negli anni trenta fu l’unico.

Di Doria nessuno parla più fino al 1951, quando esce nei paesi anglosassoni la biografia di Marek. Questi aveva chiaramente capito che la famiglia (nelle persone di Fosca Gemignani e Rita dell’Anna, vedova di Antonio Puccini) aveva un interesse nel tacere la vicenda, e più che per tutelare la memoria del maestro per nascondere i ruoli ambigui dei suoi familiari, ma si documenta andando a ricercare gli atti del processo ad Elvira, che presenta in forma estesa. E soprattutto Marek afferma la volontà di ricostruire la figura di Puccini a tutto tondo, non nella forma artefatta delle biografie ufficiali e dei ricordi di famiglia che sono stati deliberatamente alterati.

Non sono riuscito a determinare quale sia il primo testo in italiano a nominare Doria Manfredi. Secondo me è il libro di Sartori che uscì nella prima edizione nel 1958. Non che ne tratti diffusamente, una mezza paginetta, ma credo sia il primo a farlo in italiano. Sono stati necessari cinquanta anni dal fatto e trentaquattro dalla morte del maestro per vedere il tabù cadere. Nello stesso anno esce a Londra la biografia di Carner, tuttora una delle più valide, che però verrà tradotta in italiano solo nel 1961, e da allora l’episodio di Doria Manfredi viene considerato integrale alle biografie di Puccini. Mi risulta peraltro che lo scarso gradimento della famiglia nei confronti di chi si occupa di Doria sia arrivato fino alla recentemente scomparsa Simonetta Puccini.

Una domanda che mi viene rivolta spesso è: come andò realmente fra Puccini e Doria? Difficile da dire: la Doriologia è uno studio boicottato, i protagonisti stessi hanno occultato i documenti, e molto spesso ci si basa su chiacchere di paese riferite a distanza di decenni dalla loro origine. Forse solo negli anni a venire si potrà fare un po’ di chiarezza.

Come è noto, Doria nel morire chiese essa stessa di essere sottoposta ad esame medico; il medico condotto dott. Giacchi, che l’aveva curata, ne attestò lo stato di verginità. Dato che il Giacchi e Puccini erano molto familiari, il Giacchi era stato addirittura testimone nel matrimonio quasi segreto fra Puccini e Elvira del 1904, qualcuno ha ipotizzato che il responso medico sia stato addomesticato per scagionare Puccini addossando tutte le colpe ad Elvira. Anche se la cosa non si può escludere del tutto, io non mi sento di sposare questa tesi. Il Giacchi fu chiamato ad esprimersi in via ufficiale come testimone nell’istruttoria del processo, e bisognerebbe presupporre non un semplice addomesticamento ma addirittura una falsa testimonianza giudiziale. E come il Giacchi era familiare con Puccini, altrettanto lo era con Elvira. (Si narra che una volta l’Elvira pigliasse la fissazione di far tagliare i capelli ad una bambina che giocava insieme alle sue nipotine figlie di Fosca, adducendo motivi di salute. La madre della bimba andò a chiedere al dottor Giacchi se era davvero necessario tagliare i capelli della bambina, e il Giacchi rispose che l’unica cosa da tagliare sarebbe stata la lingua dell’Elvira.)

Dato però che fra un amore con consumazione di rapporti sessuali e l’assoluta indifferenza ci sono molti stadi intermedi, io personalmente ho motivo di credere che almeno in un certo stadio Puccini si fosse effettivamente invaghito della Doria – invaghito alla sua maniera, cioè con una importante sfumatura di rincoglionimento amoroso - e che l’Elvira se ne sia accorta. Questo non vuol dire che la Doria corrispondesse al sentimento del suo padrone, probabilmente no, di certo non apertamente; ma il suo allontanamento dalla casa sarebbe stato comunque necessario, se non per colpa di lei per debolezza di lui. Il guaio è che Elvira non si accontentò di far uscire di casa, a torto od a ragione, la causa della disputa; pretese il completo annientamento della ragazza e questo semplicemente non poteva essere. Si può intuire che le discussioni fra Puccini ed Elvira in merito a Doria siano arrivate fino allo scontro fisico; il Marchetti trovò a casa di Ramelde Puccini un frammento di scritto dove Elvira lamenta che Puccini arrivò a darle un pugno. Per motivi che mi rimangono misteriosi Marchetti attribuisce questo frammento al caso Cori, quando è evidente che si riferisce al caso Doria perché vi si cita “una servaccia”. Per cui, anche se sarei tentato di definire come inescusabile il comportamento di Puccini che fugge a Roma abbandonando il campo, e di fatto abbandonando Doria alle fauci di Elvira nei tre ultimi giorni prima del suicidio, tuttavia non posso neanche fare a meno di pensare che Puccini le abbia tentate di tutte per dominare la rabbia di Elvira e che alla fine abbia gettato la spugna per manifesta impossibilità.

Secondo il Marek, che poi è l’unico autore che per una circostanza irripetibile ha potuto esaminare una abbondante parte della corrispondenza fra Elvira e Puccini, la gelosia di Elvira e la paura di essere abbandonata si manifestano già dal 1891, in pratica da cinque/sei anni dall’inizio della loro relazione,  quando ancora Puccini non era un autore di successo e i dubbi sostanzialmente ingiustificati. A Marek sembra di vedere un certo raffreddamento fra Puccini ed Elvira prima del 1900, segue poi la vicenda di Cori che dura quattro anni. Elvira ne esce trionfatrice, che l’odiata rivale è costretta a sparire ingloriosamente e Puccini a regolarizzare la sua unione con lei. Ancorchè finalmente coronato dal matrimonio, il loro rapporto però ne esce a pezzi, fra di loro non c’è più alcuna fiducia; come completamente a pezzi ne esce Puccini. Complice anche la morte di Giacosa che spezza il dream team che ci aveva dato Bohéme, Tosca e Butterfly, Puccini dal 1904 non ha più voglia di scrivere musica né riesce a trovare un soggetto che lo soddisfi, tanto che dal 1904 al 1907 incluso la sua attività di compositore è praticamente nulla. Quando finalmente riesce a concentrarsi su La Fanciulla del West, la storia di Doria cade come una mazzata su di lui, costringendolo ad abbandonare il lavoro per quasi un anno. Con dei riflessi amari, come quando in una lettera a lungo censurata alla Seligman, confessa il peso di dover lavorare su un libretto scritto da un assassino, perché attribuisce a Civinini librettista di Fanciulla un ruolo nella tragica fine di Doria.

Non so se sia più grave la crisi Cori o la crisi Doria. Se la seconda ha fatto una vittima, la prima probabilmente ne è stata il necessario presupposto – senza lo stress indotto in Elvira dalla presenza dell’amante piemontese, probabilmente il loro rapporto non sarebbe degenerato tanto profondamente. Per Puccini la morte di Doria fu un trauma durissimo. In più di una lettera Puccini accenna alla possibilità dei suicidio, anche se per crederci occorre un atto di fiducia da parte del lettore. L’atteggiamento di Elvira, che mai ammise di aver avuto torto, certo non aiutava; forse solo la concreta paura di finire davvero in galera la indusse a ragionare un poco. La sentenza di primo grado che la condannava a cinque mesi di reclusione e a una forte multa, oltre a rinviare a successivo procedimento per determinare l’indennizzo ai parenti della vittima, escludeva espressamente la condizionale per rimarcare il disastro di una linea difensiva che non ammetteva colpe a fronte di testimonianze schiaccianti. Elvira non si presentò al processo lasciando che fossero gli avvocati a difenderla, e forse fu meglio così, che se i giudici l’avessero sentita dal vivo l’avrebbero trattata anche peggio. Ma Elvira non fece un giorno di galera; dopo la prima sentenza, riconosciuta ufficialmente l’innocenza di Doria e la persecuzione di cui era stata vittima, i parenti si accontentarono di un risarcimento e ritirarono la querela. Come osserva acutamente Seligman figlio, dopo tutto quello che era successo e con parenti, amici, avvocati e Ricordi che premevano per la liquidazione definitiva di Elvira, Puccini pagò di tasca sua per salvarla e riaverla in casa. Un maligno potrebbe osservare che l’atto di separazione che Campanari, avvocato di Ricordi, propose tra Elvira e Puccini e che Elvira non volle firmare, prevedeva un assegno di mantenimento di 12000 lire annue, incluso l’affitto dell’appartamento di Milano dove Elvira si sarebbe stabilita. Tutto sommato, con il risarcimento della famiglia Manfredi, che tradizionalmente si individua in 12000 lire una tantum, Puccini ci avrebbe risparmiato non poco. E’ evidente che Puccini non poteva comunque fare a meno della presenza di Elvira, tuttavia i rapporti fra di loro presero una parvenza di normalità solo molti anni dopo, dopo il 1922.

Io ho una teoria sulla quale forse un giorno riuscirò a lavorare più estesamente, e cioè che i librettisti di Puccini talvolta imitassero nei loro versi quelle che erano espressioni che lo stesso Puccini usava – sempre ammesso che non fosse Puccini a sostituirsi ai librettisti scrivendo lui stesso i versi. Per esempio, l’espressione “penna infame” per indicare una penna che non scrive che troviamo nella Bohéme, si trova già in una lettera giovanile di Puccini alla madre. Io non mi ricordo altro usi di questa espressione: mi piace pensare che fossero ipsissima verba di Puccini, e che Illica e Giacosa li abbiano infilati nel libretto per fare il verso a Puccini.

In questa ottica, non mi dispiace pensare che qualche cosa di Doria sia rimasto nella figura di Minnie. Puccini lo scrive apertamente a Ricordi un paio di volte. Ma, alla fine, come era Doria ce lo racconta Minnie stessa:

Non so, non vi comprendo.
Io non son che una povera fanciulla
oscura e buona a nulla:
mi dite delle cose tanto belle
che forse non intendo...



27/01/18

Il testamento di Verdi

27 gennaio, giornata importante per la storia della musica. 1756, nasce Wolfgang Amadeus Mozart. 1901, muore Giuseppe Verdi. Della nascita di Mozart mi occuperò l’anno prossimo (promesso!), per quest’anno parliamo di Verdi. Suggerisco di leggere il suo testamento che si trova a http://www.musicaprogetto.org/2014/06/testamento-olografo-di-giuseppe-verdi.html

Leggetelo, perché è il testamento di un grande uomo, e di quello che all’epoca era probabilmente l’uomo più ricco d’Italia.

Qualche chiave di lettura:
1.     per avere una idea del potere d’acquisto della lira, la villa Puccini di Torre del Lago, acquistata a fine 1899 fu pagata diecimila lire. Era un ottimo prezzo perché in cattive condizioni e dovette essere ristrutturata, ma serve per rendere l’idea che diecimila lire del 1900 fossero il prezzo di una villa di due piani in campagna, in un posto non particolarmente felice e in non buone condizioni. Diciamo 400/500mila euro di adesso? E’ il legato che viene lasciato a tre opere pie e a un domestico fedele.

2.     Mentre tutti sanno della costruzione della casa di riposo per musicisti a Milano, non tutti sanno che in precedenza Verdi aveva fatto costruire a sue spese l’ospedale di Villanova d’Arda, dotandolo di alcune proprietà per finanziarne il funzionamento. L’ospedale viene ricordato anche nel testamento.

3.     Alla casa di riposo di Milano rimane il lascito più importante, cioè i diritti d’autore sulle opere che durarono fino  agli anni sessanta (il termine venne prolungato con una legge ad hoc).

4.     Sia per l’ospedale di Villanova che per la casa di Riposo, Verdi si preoccupa non solo di costruire la strutture ma anche di dotarle di un capitale, la cui rendita consenta di finanziare le operazioni della casa. Un concetto completamente estraneo alla mentalità degli amministratori pubblici del giorno d’oggi. Ci si chiede se questi ultimi abbiano fatto il corso alla alta scuola di amministrazione di Topolinia.

5.     Il credito di duecentomila euro verso la Ricordi si riferisce alla trasformazione di questa da azienda familiare a società, passaggio che venne finanziato, in una curiosa inversione di ruoli, dall’autore di maggiore successo della società e cioè Verdi.

6.     L’avvocato Campanari era anche quello che curava gli affari legali della Ricordi. Nel 1909 lo troveremo quale estensore dell’atto di separazione fra Elvira e Giacomo Puccini a seguito della vicenda Doria Manfredi, atto che non venne mai firmato (ne riparleremo).

7.     La famiglia Carrara tuttora possiede sia la villa di Busseto che i documenti personali di Verdi. La villa di S.Agata in effetti è rimasta, almeno gli ambienti che si possono visitare, come era ai tempi di Verdi e lascia l’idea che il proprietario sia temporaneamente assente ma che potrebbe anche tornare da un momento all’altro. Forse domani.

8.     Le righe migliori sono le ultime. Verdi morì nella notte e il funerale di terza classe fu tenuto nella chiesa di S. Francesco di Paola, grosso modo di fronte al Grand Hotel et de Milan dove Verdi morì nella camera 105, all’alba e senza musica. Naturalmente il funerale ufficiale modestissimo come da richiesta del defunto non soddisfò nessuno,  e il mese successivo si fece il grandioso trasporto della salma alla tomba nella casa di riposo, con musica diretta da Toscanini e folla tale che occorsero 11 ore al carro funebre per traversare la città dal cimitero monumantale a via Buonarroti.

9.     Non era un caso che Verdi morisse nella camera 105. Quando andava a Milano soggiornava sempre nella camera 105 del Grand Hotel et de Milano, di proprietà della famiglia Spatz. La figlia degli Spatz, Olga, sposò Umberto Giordano e siccome in Italia tutte le cose si fanno in famiglia, questa fu l’occasione per Giordano per mettersi sotto la protezione di Verdi.


10. L’ultimo pensiero fu, comunque, per i poveri di Busseto.