22/02/18

Sempre su Puccini. 22 febbraio 1900: una giornata da leoni


Una difficoltà della ricerca pucciniana è che la corrispondenza, quella che è stata pubblicata, è dispersa su numerosi libri. Magari lettere scritte nelle stesso giorno si trovano in diverse raccolte; ed è anche difficile rimettere in ordine cronologico i diversi materiali. La pubblicazione dell’epistolario completo, almeno per quello che è conosciuto, ovvierà a questo inconveniente, però siamo solo al primo volume saranno necessari anni prima di arrivare all’ultimo.
C’è una giornata di Puccini che viene citata più o meno in tutti i libri: giovedì 22 febbraio 1900. Il divertente è che ogni autore cita una diversa attività di Puccini, ma se le rimettiamo tutte insieme diventa una vera giornata da leoni. E’ anche interessante notare come, ricomponendo i pezzi del puzzle, possiamo seguire una giornata della vita di Puccini quasi ora per ora.
Il 22 febbraio si inserisce nel quadro della ripresa di Tosca a Torino dopo la produzione inaugurale a Roma in gennaio. Una cosa relativamente tranquilla, in quanto la compagnia di canto era la stessa della prima a Roma (14 gennaio), relativamente sperimentata, cambia solo il direttore d’orchestra. Nuovo direttore che, sappiamo dalla lettera del 14 febbraio a Nomellini citata in un precedente post, era piuttosto fiacco. Comunque Puccini segue l’allestimento di Torino a distanza, andando avanti e indietro in treno da Milano. La prima di Torino del 20 febbraio va abbastanza bene. 
Per capire i movimenti bisogna ricordare che Puccini ha sempre mantenuto una residenza a Milano, prima in via Solferino 27 e poi, dal 1901, in via Verdi 4 di fronte alla Scala. Questi due appartamenti erano in affitto a lungo termine. A Torre del Lago, Puccini ha abitato dapprima in affitto, ma nel 1899 acquista la villa che diventerà la sua residenza preferita. La villa non era in buono stato e furono necessario grossi lavori di ristrutturazione, più le decorazioni affidate ai pittori amici di Puccini – Pagni che stava a Torre del Lago dietro l’angolo, Nomellini che stava a Genova ma finirà per stabilirsi anche lui a Torre del Lago; e infine De Servi, lucchese ed amico di infanzia di Puccini, ma all’epoca anche lui residente a Genova. Puccini si stabilirà definitivamente nella villa restaurata nel marzo 1900, ma in febbraio fervono ancora i lavori che Puccini tenta di dirigere per lettera quando non è sul posto.
Sappiamo che il 21 febbraio Puccini è a Milano e la sera partecipa ad un un banchetto in onore di Giacosa; prendo questa notizia da un trafiletto de “La Stampa”. La mattina del 22 Puccini parte in treno per Torino, ma prima di partire trova il tempo di scrivere una lettera a Pagni il pittore; Puccini gli ricorda che il 15 marzo prossimo conta di installarsi nella villa e lo invita a sbrigarsi con la sua quota di decorazioni.
Poi Puccini sale in treno e scrive una cartolina a De Servi, impostata durante la sosta alla stazione di Novara. Dopo Novara, altre due cartoline scritte sul treno: una ancora a Pagni (dove scrive che “l’opera vile” era andata bene il 20 febbraio) e una a Mugnone, il direttore di Tosca a Roma. Il Magri nel suo libro su Puccini pone erroneamente queste cartoline come impostate nel viaggio di ritorno, ma dal contesto dell’intera giornata si capisce che sono state impostate all’andata. 
A Torino Puccini prende alloggio al Grand Hotel et Hotel d’Europe. Per prima cosa scrive, su carta intestata dell’albergo, all’ing. Puccinelli di Lucca che è quello che gli ha già ristrutturato la villetta di Chiatri e gli sta ristrutturando quella di Torre del Lago. Siccome Puccini era uno di quelli che arrivavano a lavori in corso e facevano spostare porte e chiudere finestre, salvo cambiare idea dopo poco e poi ancora cambiare idea, alla fine gli arrivavano conti del muratore esorbitanti e litigava sistematicamente con il Puccinelli. Anche perché nell’idea di Puccini, l’ingegnere avrebbe dovuto accontentarsi della gloria di lavorare per un grande compositore e non pretendere compensi. La lettera al Puccinelli è riportata dal Valleroni, che la ebbe dalla moglie dell’ingegnere, e tratta del pagamento di alcuni lavori e di alcuni leoni di pietra che dovrebbero essere ancora alla villa. Per la cronaca, sia pure brontolando, Puccini pagò sempre per intero i conti del Puccinelli.
Poi scrive una cartolina al Vandini Guido, un maestro collaboratore del teatro del Giglio a Lucca, solo poche parole; però da questa apprendiamo che Puccini non viaggia da solo ma con lui sono Elvira e Fosca (all’epoca una signorina di quasi venti anni) che salutano. (Questa cartolina finì nel fondo Del Fiorentino, che poi è finito a Montecatini ed è stato pubblicato da Pintorno)
Puccini scrive la seconda volta anche a De Servi: anche lui ha l’incarico di decorare una sala nella villa di Torre, e si deve sbrigare: il mese prossimo deve venire in visita Giacosa e serve la sala pronta (lettera riportata dal Marchetti nel suo libro, ma si trova anche nella corrispondenza completa con De Servi a cura di Simonetta Puccini). Possiamo indovinare che Puccini si sia messo d’accordo per la visita di Giacosa alla cena della sera prima (ma queste deduzioni sono possibili solo dopo aver ricostruito esattamente la cronologia).
Sempre in giornata ci sono due lettere a Raffaello Sardi e Raffaello Mansi delle quali ignoro il contenuto (ma ringrazio il centro studi di Lucca che me ne ha resa nota l’esistenza)
Secondo il Magri, sempre nello stesso giorno Puccini riceve in dono la foto con dedica di una importante ammiratrice, la duchessa Maria di Mecklemburg. Qui il vostro ricercatore ammette di avere una defaillance: il Magri non aveva Wikipedia e non aveva realizzato che i ambedue rami della famiglia Mecklemburg avevano dame di nome Maria, rispettivamente Maria di Mecklemburg-Strelitz, e Maria di Mecklemburg-Schwerin, quindi non specifica quale delle due. Sono entrambe personaggi interessanti: la prima rimase incinta giovanissima di un servitore che la aveva ipnotizzata, salvo poi sposare un banchiere che uccise suo fratello in duello; la seconda sposò un figlio dello Zar Alessandro II e fu protagonista di una clamorosa fuga dalla Russia nel 1920: mentre tutti gli aristocratici scappavano con qualsiasi mezzo e sotto traccia per non farsi prendere dai bolscevichi, lei da vera signora scappò con il suo treno personale coperta di gioielli. Non avendo visto la foto donata a Puccini, non posso dire quale delle due Marie fosse. Ad occhio e dopo aver consultato le cronache mondane del Corriere della Sera (la Stampa tace su questo) mi sembra che la prima dovesse avere una maggiore familiarità con l’Italia, per cui propendo per Maria di Mecklemburg-Strelitz ma con un punto di domanda.
Sappiamo da una recensione de “La Stampa” che i palchi del teatro Regio il 22 febbraio erano pieni ma la platea mezza vuota. Quindi una serata non troppo entusiasmante. Probabilmente in occasione della serata d’opera Puccini dona uno spartito di Tosca con dedica alla nobile signorina Amalia Luisa Casana. Questo dono ha provocato un qui pro quo: nella disperazione di non avere alcun indizio sull’identità di Cori, il grande amore torinese di Puccini, il Magri ipotizzò che potesse essere proprio la Casana. La grande segretezza dell’affare sarebbe dovuta alla necessità di non compromettere una fanciulla di una famiglia importante.
Il Magri, però, non conosceva ancora la lettera a Puccinelli sopra indicata, dalla quale apprendiamo che Puccini aveva già fissato un appuntamento con la vera Cori proprio per quella sera del 22 febbraio. Puccini infatti termina la lettera dicendo di non voler nominare una persona, perché “…ho paura che mi porti male stasera dovendo produrmi anche come maschio!” (maschio sottolineato)
Dal che deduciamo che dopo l’opera ci fu anche un felice epilogo con la Cori (se il conto è giusto, la seconda volta dopo quella del 14 febbraio, S. Valentino). C’è però una cosa che non torna in tutta questa storia: in albergo c’erano anche Elvira e Fosca come abbiamo accertato dalla cartolina al Vandini. Non chiedete con quale scusa Puccini abbia piantato in albergo moglie (o meglio, facente funzioni di moglie) e figliastra, prima o dopo la recita, per dedicarsi ai sublimi piaceri di Cori. Questo non sta scritto da nessuna parte.
Dopo questo exploit, di Cori si perdono le tracce per qualche tempo. Di sicuro la ritroviamo, e nominata come persona nota a tutti gli amici (maschi) di Puccini, a Torre del Lago nel week end del 2 giugno 1900: avendo ristrutturato la casa, Puccini non deve aver resistito alla tentazione di farla vedere alla nuova fidanzata approfittando di una assenza di Elvira. Ma quella visita piuttosto imprudente dette la partenza a tutta una catena di eventi che segneranno quasi quattro anni della vita di Puccini. Ne riparleremo a suo tempo.

16/02/18

La prima di Butterfly

17 febbraio 1904: Madama Butterfly cade clamorosamente alla sua prima al Teatro alla Scala. Dopo due prime a Torino e una a Roma, la Scala viene scelta per dare la nuova opera di Puccini, e il clamoroso insuccesso rimarrà negli annali del teatro.

I critici, il giorno dopo, trovarono vari motivi all’insuccesso; primo, il moltiplicarsi delle trovate di colore locale giapponese che diluiscono l’azione e che in seguito furono progressivamente eliminati. Secondo, il tema all’entrata di Butterfly fu giudicato troppo simile al quartetto della Bohème – e dalla versione di Brescia in poi Puccini inverte un paio di note di questo tema, ogni volta che si presenta, per cambiarne la fisionomia. Una terza critica è la più sostanziale e anche la più assurda: Puccini nel comporre usa dei motivi conduttori, ripetuti variandoli ogni volta, e con il quale il pubblico si familiarizza rapidamente; questo venne percepito come un espediente per risparmiare fatica quando invece è proprio il bello della composizione pucciniana – sembrerebbe quasi che per i critici si dovesse tornare indietro all’opera a numeri staccati, ognuno musicalmente indipendente. Quarta critica, la lunghezza eccessiva del secondo atto.

Ma per quanti difetti potesse avere la prima versione di Butterfly, non era comunque così brutta da giustificare zittii e rumori del pubblico tanto forti da coprire il suono dell’orchestra e un comportamento complessivamente incivile. Nessuno ha mai spiegato in maniera soddisfacente che cosa sia avvenuto, ma tutto lascia pensare a contestazioni preordinate. In un articolo non firmato ma probabilmente di Giulio Ricordi stesso, si sostenne che lo spettacolo in sala era stato organizzato con altrettanta cura di quello sul palcoscenico, tant’è vero che le contestazioni iniziarono dal primo minuto. C’è chi ha ipotizzato una gazzarra organizzata dalla Sonzogno, la casa editrice rivale di Ricordi, che fino a qualche anno prima aveva gestito in proprio la stagione della Scala con lo scopo di escludere i compositori Ricordi, e aveva anche rischiato il fallimento a causa della gestione teatrale; ma chi avrebbe davvero  organizzato la contestazione, questo non lo si è mai accertato. Se anche ci fosse stata una claque maldisposta e ostile, comunque anche il resto del pubblico perse ogni inibizione e partecipò alla gazzarra.

Il fiasco di Madama Butterfly si affianca al fiasco di Norma che pure ebbe un clamoroso insuccesso alla sua prima scaligera. Ora, so di toccare un punto sensibile e che alcuni amici che lavorano in quel teatro mi stanno leggendo; ma se la Scala in certi momenti della sua storia, segnatamente sotto Toscanini, ha toccato dei vertici che ne facevano il primo teatro del mondo sotto il punto di vista artistico, ha avuto pure nella sua storia lunghi anni di gestione mediocre e qualche infortunio di portata storica. Una cattiva messa in scena della Giovanna d’Arco nel 1845 indusse Verdi a lasciare la Scala, facendo addirittura aggiungere nel suo contratto con Ricordi una postilla: mentre la casa Ricordi poteva trattare le condizioni di rappresentazione con i singoli teatri in autonomia, per eventuali rappresentazioni alla Scala sarebbe stato sempre necessario l’assenso preventivo ed esplicito del Verdi. Verdi che tornò alla Scala solo nel 1869. C’è da dire che il Verdi era molto sensibile, e un paio di discussioni con una orchestra svogliata durante le prime letture del Don Carlos furono motivo sufficiente per non mettere più piede neanche all’Opera di Parigi.

Ma il caso del Verdi è diverso: la sua Giovanna d’Arco si era trovata in un momento di crisi generalizzata, soprattutto economica, della Scala e questo aveva avuto peso nella sciatteria delle rappresentazioni. Diverso è il caso di Norma e Butterfly, di pubblici che ad onta di compagnie eccellenti e rappresentazioni curate rifiutano di apprezzare lavori che le generazioni a venire definiranno geniali. Questo fa parte del mistero e anche del fascino del teatro: per il modico costo di un biglietto, si compra il diritto di dissentire, ma eventualmente anche di rendersi ridicoli agli occhi della storia.

Un critico (Achille Tedeschi detto Leporello) osservò che Puccini, nel ritirare immediatamente l’opera dalle scene all’indomani della infelice prima, le aveva tolto la possibilità di rivincita: anche la Norma inizialmente fischiata aveva poi avuto trentatré recite applaudite; e che il pubblico della Scala si sarebbe rapidamente ricreduto nei confronti di una Butterfly che poteva avere qualche difetto ma era il frutto di una ispirazione sincera. Io penso che il pubblico intero – e non solo la claque – si sia comportato in maniera così villana e indisponente da non meritare un secondo appello; e si noti che il ritirare lo spartito volle dire per gli autori rinunciare a 20000 lire di anticipo (in termini odierni, diciamo qualcosa come 800mila euro) e per la Scala scompaginare completamente il calendario - quindi anche se rapida non fu decisione presa alla leggera.

Un dettaglio della sera spesso viene male interpretato. Un movimento brusco causò il gonfiarsi del costume di Butterfly – Rosina Storchio – e una voce dal loggione urlò: Butterfly è incinta. Su questo diversi commentatori hanno romanzato, ma il significato è chiaro. La Storchio non era incinta al momento della recita, ma l’anno precedente in gran segreto aveva avuto un figlio da Toscanini. Il povero bambino era handicappato e morirà a 16 anni. La battuta non voleva colpire Puccini ma la Storchio e Toscanini.

In realtà Puccini alla Scala non aveva avuto vita facile neanche in precedenza. Un allestimento di Bohème nel dicembre 1900 non era stato fischiato ma aveva lasciato completamente freddo il pubblico – nonostante ci fosse sul podio Toscanini e il ruolo di Rodolfo fosse l’esordio di Caruso alla Scala; Caruso che peraltro non stava bene. Per quando Caruso fu guarito e l’opera applaudita, Puccini se ne era già tornato a Torre del Lago a spegnere il nervoso con la caccia. Memore anche di una Tosca scaligera sempre nel 1900, Puccini parlava del pubblico di quel teatro come di un “superpubblico” che evidentemente non apprezzava anche lavori che altrove riscuotevano grandi successi.

Dopo il fiasco di Butterfly, Ricordi presentò alla Scala le opere di Puccini con estrema prudenza. Negli anni in cui il Puccini era il compositore italiano di punta, ne furono date solo quattro opere dal 1904 al 1921, e cinque allestimenti dal 1922 al 1924 cioè sotto Toscanini. Dopo la disastrosa prima del 1904, la seconda recita di Butterfly alla Scala fu nel 1925 con Toscanini ed il pubblico non potè esimersi dall’applaudirla. Ma Puccini non c’era già più.

Questo non vuol dire che le opere di Puccini non si dessero a Milano: Butterfly fu ripresa già nel 1905 al teatro Dal Verme. Nelle principali città i teatri d’opera erano più di uno e capitava non di rado che il secondo teatro avesse un repertorio più progressista del primo; non necessariamente il teatro maggiore era il migliore ed il più aperto alle novità, anzi. A Parigi Puccini arrivò quasi a monopolizzare l’Opera Comique prima di essere preso in considerazione all’Opera.  A Vienna Puccini arrivò molto prima al Theater an der Wien; e all’opera di corte (quella che adesso è la Staatsoper) solo dopo l’abbandono di Mahler che non lo aveva simpatia. – E passato Mahler, salvo la forzata interruzione della guerra mondiale, l’opera di Vienna divenne uno dei teatri preferiti di Puccini e Puccini uno dei preferiti del pubblico.

Dopo l’insuccesso alla Scala, Puccini allestì una seconda versione dell’opera per Brescia, con numerose modifiche. Il secondo atto, troppo lungo, fu spezzato in due. Molte cose furono tagliate, alcune aggiunte, altre modificate. Il motivo che ricordava un po’ Boheme fu modificato nel contorno melodico. Ma non fu nemmeno questa la versione definitiva; Puccini continuò a sperimentare, togliendo ed aggiungendo episodi nei vari allestimenti; difficile anche solo tenere il conto di queste versioni. La versione finale, quella che si sente oggi, è una ulteriore versione, quella del 1906 per l’Opera Comique di Parigi. Nell’occasione la prima donna era la moglie del sovrintendente Carrè e Puccini le aveva assegnato, pentendosene subito dopo, l’esclusiva per la Francia su alcuni dei suoi titoli per un certo periodo. Madame Carré era un soprano passabile ma non eccezionale – Puccini l’aveva soprannominata “Madame Pomme-de-terre” (patata); non poteva ovviamente essere sostituita, e suo marito chiese fin dal principio un certo numero di tagli temendo che la signora non riuscisse ad arrivare alla fine dell’opera. In passato Puccini avrebbe fatto fuoco e fiamme, ma incredibilmente Puccini e Carrè si misero d’accordo sulla nuova versione in un solo pomeriggio, probabilmente perché Puccini aveva già sperimentato molti possibili tagli nelle diverse riprese ed era arrivato lui stesso alla conclusione che Butterfly dovesse essere scorciata. Mentre la Butterfly milanese, e anche quella di Brescia in minore misura, era un’opera sullo scontro fra due mondi, quello giapponese e quello occidentale, che non si capiscono, la Butterfly parigina, che poi sarebbe la nostra, è il dramma di una donna schiacciata dal precipitare degli eventi ma che non rinuncia alla sua dignità: con onor muore chi non può serbar vita con onore.

Carrè, a dire il vero, chiese delle modifiche non solo per facilitare il ruolo della moglie ma anche convinto di dare maggiore intensità allo spettacolo. Per esempio, la grande aria di Butterfly nel secondo atto prima di Parigi narrava di un sogno di Butterfly che vedeva suo figlio alla corte dell’imperatore. Fu Carrè a chiedere che fossero cambiate le parole. Le parole furono cambiate, retrospettivamente, anche nella versione italiana (“E Butterfly, orribile destino, danzerà per te”) e sono diventate quelle definitive: qui capiamo che il destino finale di Butterfly è la morte, non potendo accettare il destino che le circostanze vorrebbero imporle.

C’è chi sostiene che da nessuna parte Puccini designa la versione di Parigi come definitiva. Di fatto, si stancò di modificarla ed accettò che diventasse definitiva.

Un’ultima osservazione. Butterfly è una delle opere più amate dal pubblico, ma ha conquistato lentamente questo status. Lo stesso Giulio Ricordi non credeva realmente nelle potenzialità dell’opera e la credeva un passo indietro rispetto a Bohème e Tosca, quando invece la storia ci ha dimostrato che è un’opera che ha le stesse potenzialità, se non maggiori, delle sue sorelle. In prima lettura, Ricordi aveva approvato il soggetto anzi se ne era detto talmente commosso che alla prima lettura non era riuscito a dormirci sopra di notte. Ma nella realtà avrebbe preferito una realizzazione più tradizionale dell’opera – a lui lo schema di Illica in tre atti con l’atto del consolato nel mezzo sarebbe andato più che bene, e lo schema in due atti con il secondo atto lungo non lo convinceva – sarebbe stata infatti una causa dell’insuccesso della Scala. Aggiungiamoci poi la questione personale con Puccini, che aveva perso la testa per la giovane Cori, mentre Ricordi era convinto che quella relazione lo portasse alla rovina umana ed artistica. Questa crisi dei rapporti fra il signor Giulio ed il signor Giacomo penso che non sia stata mai superata, tanto più che Butterfly ha avuto, dopo il botto iniziale, un avvio positivo ma lento con il pubblico. Ancora a fine 1906, Ricordi poteva lamentarsi con Puccini che le entrate di Butterfly non avevano ancora pareggiato le spese – e questo era anche un implicito rimprovero a Puccini che anziché scrivere musica andava troppo in giro a seguire gli allestimenti, spendendo un sacco di soldi di spese di rappresentanza. Ricordi era convinto che Puccini dovesse riscattarsi scrivendo un bell’operone grandioso di soggetto storico, per esempio una “Maria Antonietta” che l’Illica cercò di sceneggiare in tutti i possibili modi; o un bel drammone su libretto di D’Annunzio, ipotesi che pure non andrà mai in porto.

Insomma, sia che la vediamo dal punto di vista della vicenda personale, che dal punto di vista artistico e professionale, Butterfly di fatto chiude un capitolo della vita di Puccini. Puccini non ne esce bene: dopo Butterfly, terminata fine dicembre 1903, ricomincerà a scrivere musica nel 1908.