20/10/17

La Rondine

Visto che la stiamo facendo a Firenze, in diversi mi hanno chiesto un giudizio su “La Rondine”. E già è sospetto che mi si chieda un giudizio, nessuno mi ha mai chiesto un giudizio su “La Bohéme”.

A parte le due opere giovanili, che sarebbe ingeneroso paragonare alle opere mature, Rondine è quella che ha avuto meno fortuna ed anche la meno riuscita. E’ un’opera nata storta e, con tutto lo sforzo di Puccini, non è riuscito a raddrizzarla strada facendo. Lui che su certi soggetti ci rimase a pensare per anni senza farne nulla, accettò un contratto a scatola chiusa con due impresari viennesi solo perché attratto dal compenso e per vendicarsi dei dispetti di Tito Ricordi che cercava di fargli un po’ le scarpe per favorire Zandonai. Arrivato da Vienna il canovaccio che Adami avrebbe dovuto sviluppare come operetta, si rivelò soggetto assai esile anche per un’operetta e dovette essere adattato infinite volte. Ringraziamo Puccini e Adami per averne comunque cavato qualcosa – Adami disse di aver scritto l’equivalente in versi di sedici atti per metterne insieme tre che passassero il vaglio di Puccini.

Penso anche che la vicenda ci sia incomprensibile perché abbiamo perso il senso dell’ambiente nel quale si svolge. L’ambientazione non è casuale: la Parigi del secondo impero, che era una città dalla vitalità inarrestabile, fra le cui stelle erano le mantenute della classe dirigente (“Les grandes horizontales”, le chiama Virginia Rounding nella sua monografia che è un libro interessantissimo). Le mantenute erano il cosiddetto “demi-monde”, termine inventato da Dumas figlio, un mondo lussuoso ma non rispettabile e parallelo a quello della buona società. Il modello di Magda potrebbe essere per esempio Apollonie Sabatier detta “La Présidente”. Mantenuta per quattordici anni da un importante industriale belga, era una donna colta e intelligente, non priva di una certa saggezza e maestra dell’understatement, amante delle arti e acquerellista essa stessa. Alle sue cene informali la domenica alle sei (come la cena in casa di Magda nel I atto della Rondine) partecipavano le migliori teste di Francia: Flaubert, Téophile Gautier, Berlioz, de Musset, Manet. A lei dedicò poesie di amore perduto Baudelaire, la statua di lei in preda ad una fitta di orgasmo scolpita da Clésinger si trova ora al museo d’Orsay. – Statua ricavata da un calco in gesso al naturale, sottile maniera del suo amante di esibirla a tutto il mondo. - A una di queste cene fu visto arrivare Gautier vestito in pelliccia, perché era di ritorno dalla Russia e dalla stazione era andato direttamente a casa della Sabatier senza passare neanche da casa sua. Il punto della vicenda di Rondine é: queste fanciulle del secondo impero, da una parte perdute e da quell’altra donne indipendenti, ricche e intelligenti più delle dame della migliore aristocrazia, potevano essere le amanti degli uomini facoltosi, ma una volta entrate nel circolo del demi-monde non ne potevano più uscire. Quelle che riuscirono a farsi sposare e a tornare nei ruoli delle donne per bene, per esempio la Péllissier che sposò Rossini, si possono contare sulle dita.

Non è questione che il regista sposti o meno l’ambientazione dello spettacolo: semplicemente noi non percepiamo più questo retroterra e la vicenda ci diventa incomprensibile a livello istintivo. Va bene, lei è una donna perduta, ma perché fare tante storie? Dopo tutto Ruggero la perdona, no? – E invece no. Puttana una volta, puttana per sempre. Non perché lo dica Ruggero ma perché questo sarebbe il giudizio sociale universale: davvero Ruggero sarebbe rovinato se la sposasse, scenderebbe l’infamia sulla onesta casa dei suoi vecchi. Curiosamente Piave nella Traviata – un’altra mantenuta come la Sabatier, solo vissuta quindici anni prima – riesce a trasmettere l’essenza di questo dramma. Adami e Puccini lo danno per scontato e noi non riusciamo più a capire l’opera. Capirla sotto la pelle, intendo - parteciparla. Non è il caso che il momento del finale dove lei tenta di spiegare questa cosa sia il più infelice ed inefficace, sia nell’aspetto dei versi che nella musica.

Dopo di che, la meno riuscita delle opere di Puccini è sempre meglio delle migliori di Alfano o Zandonai che erano il motivo di contendere con Tito Ricordi. A me la Rondine non dispiace di sentirla; anzi, io non mi stanco mai di sentire Puccini, Rondine inclusa. Se ve la facessero sentire senza dire di chi è, potreste pensare che un buon 70% della musica avrebbe potuto scriverla, uguale uguale, Ravel. Non per nulla Ravel raccomandava ai suoi allievi di studiare Puccini. Nella Rondine, una partitura imbottita di valzer francesi, c’è un unico valzer viennese, dieci minuti dopo l’inizio del secondo atto. Un valzer con una semifrase che si scheggia in quinte acute taglienti, come un bicchiere di cristallo che vada in cocci. Puccini scrive mentre la Vienna che aveva gli commissionato si è infilata nell’avventura della guerra mondiale, l’era dorata dell’impero si sta sgretolando dall’interno. Lo stesso messaggio de La Valse di Ravel; credevo fossero contemporanee, sono andato a controllare e La Valse è stata scritta pochi anni dopo La Rondine. Puccini c’era arrivato prima ancora che la guerra finisse.

Abbiamo imparato dai tre grandi libretti di Illica e Giacosa che il valore di un libretto dipende sia dalla sceneggiatura – la sequenza della vicenda nelle sue sfumature – che dalla verseggiatura vera e propria. La sceneggiatura di Rondine non è felice e probabilmente Adami aveva troppi vincoli per poterla cambiare. Ma nemmeno la verseggiatura è un gran che, e questa è tutta responsabilità sua: nell’accordo originale con i viennesi, loro avrebbero scritto la sceneggiatura, Adami l’avrebbe verseggiata e loro l’avrebbero ritradotta in tedesco. Alla fine La Rondine da operetta è diventata opera ed il lavoro l’ha fatto tutto Adami. Nei momenti in cui Adami azzecca dei bei versi (per esempio, quando i due innamorati scrivono il loro nome sul marmo del tavolo e lei commenta “Qualche cosa di noi che resta qua”) anche Puccini trova immediamente l’accento poetico. Ma a Adami manca la grande poesia di Giacosa, centra il bersaglio solo occasionalmente e anche l’ispirazione di Puccini ne rimane diminuita. Ad essere spettacolari, nel testo di Adami, sono le didascalie, a cominciare da quella di Magda abbattuta, sfibrata, lasciata sola su una sedia:

“…ora la sala è deserta. Nel giardino si sono spente le luci. I primi chiarori freddi dell’alba non illuminano che tavoli in disordine, fiori sparsi e sfogliati per terra, bicchieri rovesciati. Tutta l’infinita tristezza di una festa passata è in queste prime luci mattutine…”

Si rimpiange quasi che Puccini non abbia fatto come Strauss, che nel Rosenkavalier per sbaglio mise in musica anche un paio di didascalie.

C’è poi la questione delle diverse versioni del finale. Che il finale fosse insoddisfacente lo percepiva anche Puccini. Nella prima versione (Montecarlo 1917), che è quella che stiamo facendo a Firenze, il tenore Ruggero è un personaggio di eccezionale piattezza psicologica. Un vero e proprio salame; si potrebbe persino pensare, ironicamente, che Magda lo abbandoni non per tutelare l’onorabilità della sua famiglia, ma perché terrorizzata dalla prospettiva di una vita in campagna con una suocera lacrimogena in casa, allevando una nidiata di bambini e andando a letto con le galline tutte la sere. - Da Vienna fecero notare a Puccini che nessun uomo nella realtà si comporterebbe come Ruggero, a maggior ragione un personaggio che dal palcoscenico dovrebbe destare l’interesse del pubblico. Per cui, seconda versione (a Palermo in italiano e a Vienna in tedesco), fu escogitato un finale diverso: Lisette e Prunier vengono a riprendersi Magda che scrive una lettera d’addio, la lascia sul tavolo e se ne va. Il tentativo di fare una storia differente utilizzando al massimo la musica già scritta per altre parole e situazioni non ebbe successo e Puccini scrisse ancora un terzo finale: prima Rambaldo viene a cercare espicitamente di riprendersi Magda, poi a Ruggero arriva una lettera anonima che gli apre gli occhi e caccia via Magda. Sarebbe questa la versione definitiva di Puccini? Può darsi, se non fosse che questa terza versione di fatto non fu mai rappresentata né vivente Puccini né prima della seconda guerra mondiale; e nella guerra la musica dell’orchestra andò distrutta in un bombardamento. Si è salvato solo lo spartito per pianoforte, del quale fu tirato un numero limitatissimo di copie; oggi questa versione può essere solo ricostruita (a Torino hanno fatto orchestrare le pagine mancanti a Lorenzo Ferrero) ma in originale è persa per sempre. Per cui di solito si fa la prima versione di Montecarlo nella quale il tenore è un salame ma almeno il soprano ha una sua completezza musicale e psicologica.


Sull’autografo di Rondine c’è un piccolo giallo: che fine ha fatto? Tutti gli autografi di Puccini sono rimasti nelle cassaforti di Ricordi (oggi sono alla biblioteca di Brera che li conserva per conto di Ricordi). Ricordi però non volle pubblicare la Rondine che poi fu presa da Sonzogno. La versione ufficiale è che l’autografo sia andato distrutto nel bombardamento della sede della Sonzogno di cui sopra; ma non tutti ci credono. La prima italiana de La Rondine fu a Bologna nel 1917. Dopo la recita, Puccini donò come ricordo otto pagine dell’autografo alla biblioteca del locale Liceo Musicale; il che vuol dire che l’autografo era rimasto nella sue disponibilità e non era da Sonzogno. Per cui si ipotizza che, privato delle otto pagine e magari di qualche altra pagina regalata, l’autografo sia ancora nascosto negli archivi della famiglia.

18/10/17

Brevemente su Puccini e Rose Ader, e poi una lettera meglio di Totò e Peppino



Qualcuno mi ha chiesto di scrivere su Rose Ader (1890-1955) che sarebbe l’ultimo grande amore di Puccini. E’ l’argomento più difficile da trattare perché è ancora aperto. La relazione con la Ader è breve (1921-23), lei è un soprano tedesco di non grandissimo talento; quando si incontrano lui ha 62 anni, lei 31. Puccini cercherà di facilitare la carriera di lei senza grande successo; dal Metropolitan  gli scrissero che per artiste di quel livello (cioè mediocre) dovevano scritturare americane e non straniere. Luigi Ricci, un maestro collaboratore dell’opera di Roma che ha scritto un libro interessante sull’interpretazione di Puccini secondo le sue stesse istruzioni, dopo aver sentito la Ader cantare Mimì si domandò come Puccini potesse averla scelta per cantare Suor Angelica in Germania. Devo dire che dalle registrazioni che ci sono rimaste la voce non è affatto brutta, sembra che fosse però molto piccola.

La Ader deve essere stata più intelligente delle altre perché non si deve essere mai illusa che Puccini l’avrebbe sposata; immagino che abbia chiuso lei stessa la relazione per sposarsi con il barone Trigona, siciliano. Nata ad Odenberg e vissuta prevalentemente ad Amburgo, in quanto ebrea dovrà scappare dalla Germania nel 1933, terminerà la sua carriera come insegnante di canto a Buenos Aires. Era oggettivamente una donna molto bella e c’è una bella foto di lei insieme con Puccini.
La corrispondenza verso la Ader non è stata distrutta come è successo con Cori e la von Stengel, ma è interamente di proprietà privata e generalmente  non disponibile per lo studio. In realtà ci sono in vendita sul mercato antiquario molte lettere indirizzate a lei che poco per volta stanno emergendo. Ma fino a quando non ne saranno emerse in numero sufficiente è difficile fare uno studio. Penso che in qualche soffitta ci siano anche le risposte di lei, ma per quello che ne so non sono mai state pubblicate.

Con la Ader Puccini mette in scena il suo solito repertorio di incontri furtivi, giri pesca con la copertura di amici (spesso Schnabl), gelosie di Elvira che a dire il vero ormai era spompata per cui non insiste nemmeno più di tanto. Questa volta niente ombrellate. La Ader, almeno inizialmente, parlava poco l’italiano, per cui Puccini le scriveva in una sorta di linguaggio da negri, intervallato dalle tre o quattro parole che Puccini sapeva in tedesco.

Prendo la lettera seguente dal catalogo di una casa di aste, è andata in vendita nel 2014. Venduta cara per 4500 dollari, ma li vale tutti. Per capirla bisogna sapere una cosa: dal 1903 l’Elvira leggeva tutta la corrispondenza di Puccini, o apertamente o di nascosto. Per cui Puccini si faceva mandare le lettere più compromettenti al fermo posta (posta restante) di Viareggio; tutti erano istruiti che le lettere indirizzate a Torre del Lago non contenessero nulla che potesse scatenare la gelosia dell’Elvira.
Qui Puccini fa un passo avanti: sapendo che l’Elvira gli apre la posta, fa scrivere alla Ader una lettera di copertura apposta perché l’Elvira la legga e non si insospettisca all’arrivo di lei. Anche Puccini è un po’ spompato e non è più epoca di inseguimenti e ombrellate in pineta. Anzi, detta lui stesso la lettera alla Ader, in un italiano aulico e studiatamente sgrammaticato. Unito al linguaggio semplificato per amanti estere del resto della lettera, con in più una frecciatina all’odiato concorrente Richard Strauss, il risultato è  di comicità irresistibile. Neanche uno sceneggiatore avrebbe potuto scriverla.
Anche queste cose ci fanno amare il sor Giacomo.

20/8/21, Giacomo Puccini da Monaco a Rose Ader

Ricevuto telegramma da Berlino jeri. Oggi / ore 9 / non ancora tue notizie di Hamburg.
(nota a margine: ore 10 ricevuto tuo gut caro telegramma grazie tesoro mio!)

Tu devi scrivere subito lettera a me a Torre del Lago no posta restante. Fare scrivere adresse alla sig.a Seeligman perché meglio ricevere casa mia perché con tua calligrafia non rimanga posta restante.
Scrivi così: Illustre Maestro ai primieri giorni settembre io con famiglia Seeligm. venire Viareggio. Non so se Lei, caro Maestro, si ricorda di me. Mi ha conosciuta a Roma con Nikish ai concerti. Sono la sua sua Suor Angelica di Hamburg. Spero avere sua protezione per canto. Italia studiare molto grande desiderio imparare bella lingua. Scusi. Molti saluti. Rose Ader.

Hai ben capito? Puoi scrivere anche altre parole anche più lunga lettera in cattivo italiano. Scrivi subito mia casa Torre del Lago bei Viareggio Italien senza Pisa.
Così io spero più facile vederci. Meno mistero e forse non dolori per noi. – Spero . –

Ieri teatro Josef e altra opera – bello spettacolo
Ma non buona musica Strauss poco bello

Forse mia Gattin [moglie] aprire mit vapore tua lettera e leggere – gut!

Mia dolcissima quanto ho pensato a te! Ho detto a Schnabl essere sempre contradizione molto noiosa, grande scena con lui, adesso buon servitore!
Addio mio amore santo

Mille e mille baci sulla tua bocca bella sugli occhi tuo Muckili


Filologia pucciniana per toscani 4 – Bazza

Ormai non si usa più neanche in Toscana, ma quando ero bambino la “bazza” era il mento di una persona. Puccini lo usa come soprannome per il musicista Carlo Carignani (1857-1919), uno dei suoi più fidati collaboratori. Tutti coloro che lavorano sulle opere di Puccini ricordano il nome di Carignani sulla copertina degli spartiti, ma pochi sanno chi fosse. Carignani, che spesso lavorava direttamente nello studio di Puccini, era incaricato di allestire gli spartiti con la riduzione per canto e pianoforte dalla partitura. Siccome le partiture di Puccini erano quasi incomprensibili, l’abilità del Carignani stava nell’essere il primo a decifrarle. A termine del lavoro del Carignani i fascicoli venivano spediti allo stabilimento Ricordi, dove pure si trovava uno specialista della grafia di Puccini per decifrarli anche a Milano. Carignani e Puccini erano cresciuti ed avevano studiato insieme, Carignani aveva fatto a Puccini la riduzione de Le Villi e da allora Puccini si servì sempre e solo di lui.  Con il tempo, Carignani diventò una sorta di appendice nell’economia domestica di casa Puccini; amico e il collaboratore più devoto, che aveva sacrificato per lui una carriera promettente.

Carignani portava la barba ma siccome aveva il mento pronunciato si guadagnò il soprannome di “bazza”. In un momento di particolare indignazione Elvira lo nomina anche come “bazzone”, anzi “perfido bazzone”: sembra che durante le trattative per la liquidazione della Cori avesse consigliato a Puccini di trattare personalmente e non tramite avvocati. Elvira era assolutamente contraria che Puccini rivedesse la Cori, per paura che crollasse psicologicamente e ricominciasse la tresca, per cui scrive a Ricordi che si inventi qualche lavoretto da far fare a Milano al perfido bazzone in maniera di toglierselo da casa prima che metta in testa a Puccini qualche altra brillante idea. Naturalmente questo appellativo ha messo in crisi i traduttori stranieri che non sanno come interpretare questa lettera.

Carignani seguiva spesso non solo le prime esecuzioni, quando c’erano da mettere a punto le partiture, ma anche le avventure ed i giri pesca di Puccini. Almeno una volta però si mise al servizio di Elvira contro Giacomo. Le due donne di casa Puccini, Elvira e Fosca la figlia di Elvira, preferivano di gran lunga stare a Milano dove ci sono tutte le piccole distrazioni che rendono la vita sopportabile. Stare a Torre del Lago era interessante solo per Puccini che andava a caccia ma di una noia mortale per il resto della famiglia. Andare al villino di Chiatri sui monti dietro Lucca, poi, che a quei tempi si raggiungeva per una stradina che era poco più di una mulattiera, significava essere completamente fuori dal mondo. Per cui convinsero Carignani a vestirsi da fantasma e ad apparire di notte a Puccini per convincerlo che nella villa c’erano gli spiriti e non ci si poteva rimanere.

Carignani era detto anche “mestola”.



15/10/17

Josephine von Stengel, la fagiana

(Post di eccezionale lunghezza su Puccini e la von Stengel, dove si racconta come una fagiana fu spiumata)


Qualche nota sulla Josephine von Stengel che pure fu amante di Puccini. Per intensità e durata una storia paragonabile a quella di Cori; ma con toni ben diversi. Nel 1973 Arnaldo Marchetti pubblica “Puccini com’era”, la prima raccolta di lettere di Puccini parenti e amici che non sia stata pesantemente censurata, e che ne fornisca un ritratto talmente veritiero da non essere complessivamente diverso da quello che ne abbiamo oggi. Marchetti riporta tre lettere, di cui una in facsimile, della von Stengel; e Sartori, che all’epoca era il più serio degli esperti pucciniani, nella prefazione del volume si rammarica che non si possa trovare niente di più di lei. La relazione si pone principalmente negli anni de La Rondine. Sartori sperava forse di ricavare dalla von Stengel qualche indizio su Rondine.

Lo studioso che se ne è occupato di più è stato Schickling – comprensibilmente, essendo la von Stengel tedesca – ed è colui che è riuscito a trovare documenti e raccogliere testimonianze fino a quando le figlie della von Stengel erano ancora vive. Schickling ha pubblicato su di lei un articolo nel 1999, non facile da trovare. Per cui oggi abbiamo molte informazioni su di lei che a Sartori sfuggivano, ma tutto sommato nessuna informazione aggiuntiva su La Rondine. A parte qualche dettaglio è verosimile che non sapremo niente di più, perché per il 2009 tutte le discendenti della Stengel – due figlie e una nipote – erano scomparse in tarda età e la famiglia estinta. La ricerca di Schickling ha avuto anche dei veri e propri colpi di genio come andare a cercare negli archivi dei servizi segreti italiani. A me piacciono questi musicologi che fanno il lavoro duro sul campo a caccia di documenti. E ricercare di una persona, come la von Stengel, tutto sommato comune, protagonista di una vicenda fulminante che attraversa parte della sua vita ma non entrata nella storia è difficilissimo.

Sulla von Stengel ci sono pochissime fonti dirette: le tre lettere di lei pubblicate da Marchetti ed una di lui recuperata in copia da Schickling. Da un antiquario qualche tempo fa girava una ulteriore lettera di lei. Poi una foto sulla pietra tombale che la ritrae, bellissima, da giovane; e una del 1919 dove è un po’ più rotondetta ma sempre sorridente. Lei dette ordine alle figlie di distruggere tutti i suoi ricordi alla sua morte e le figlie hanno eseguito. – Esiste poi la solita traccia di allusioni nella corrispondenza di Puccini che ci permette quasi di fare una cronologia degli incontri. Qui finiscono le fonti dirette, e non è molto. Poi esistono due tradizioni di racconti: quella degli amici di Puccini tipo il Marotti e quelle della famiglia di lei raccolte da Schickling. La cosa interessante è che Schickling di principio ritiene inaffidabile il Marotti e che in generale l’aneddotistica italiana sia stata “ricamata”, però molti dettagli riferiti dal Marotti vengono confermati, come fonte indipendente, dai racconti della famiglia di lei.

Josephine nasce come Damboer nel 1886, figlia di un ufficiale di carriera bavarese; a venti anni sposa un barone Arnold von Stengel, anche lui ufficiale dell’esercito e di famiglia molto importante alla corte di Monaco – ricordo che anche se la Germania era di fatto unificata sotto il Kaiser, la Baviera fino al 1918 fu un regno formalmente ma non di fatto indipendente sotto la dinastia Wittelsbach. Nascono quasi subito due bambine, Margot e Gudrun. Il matrimonio non è molto felice ma lui le lascia una certa libertà di viaggiare. Secondo la tradizione aneddotica italiana Puccini vide passare questa donna bellissima, accompagnata da due bambine piccole e dalla loro governante, mentre si trovava seduto al Gran Caffè Margherita di Viareggio; ma Marotti aggiunge che già si erano conosciuti all’estero. Secondo i parenti della von Stengel c’era stato un incontro casuale a Bad Brückenau, stazione termale non lontana da Francoforte – il che tornerebbe con i problemi renali che poi la porteranno alla tomba. A Viareggio la von Stengel ci sarebbe andata per far respirare un po’ di aria di mare alle bimbe e su consiglio di Puccini. Puccini aveva appena comprato un motoscafo e si sarebbe scatenato in gite marine con la bella forestiera. In ogni caso non sapremmo dove collocare nel tempo questi primi incontri. Sappiamo viceversa dove e quando collocare la prima notte di amore: in un alberghetto riservato di Monaco, il Marienbad, fra il 12 e 16 giugno 1912. Lo sappiamo perché nel 1924 Schnabl, l’amico di Puccini che in tutta questa vicenda fornisce spesso coperture ai “giri pesca”, si ferma per caso a dormire proprio al Marienbad e scrive a Puccini su carta intestata dell’hotel. Questo provoca una crisi di nostalgia al maestro, che ricorda ancora la notte  del primo rendez-vous, e sono passati dodici anni. Come l’amore con Cori fu bollente, quello con la von Stengel fu tenerissimo.

La relazione prosegue un po’ sulla falsariga di quella con Cori: Puccini trova le scuse per appartarsi con lei, viaggiando in Germania: lo vediamo in agosto a Monaco, Norimberga, Bayreuth, Karlsbad, a Monaco di nuovo in dicembre e così via. Da Karlsbad scrive sia alla nipote Albina che alla Seligman citando un’altra cura, oltre quella delle acque, che gli fa bene. E negli intervalli fra le sortite tedesche Josephine viene a Viareggio, che altrimenti non si può spiegare perché Puccini senta il bisogno di soggiornare in alberghi a pochi chilometri da casa sua. La stessa Giulia Manfredi, cugina di Doria, raccontò di aver ospitato per conto del maestro una tedesca alta e bellissima. Puccini se la dev’essere portata dietro a Capalbio, a una caccia in Maremma e a una gita in auto dell’Italia centrale.

Elvira avverte qualcosa ma da principio non capisce. Da Karlsbad (e siamo dopo la seconda uscita con la von Stengel) torna un Puccini assente di testa, in una lettera Elvira lo rimprovera di non averla salutata né abbracciata, di essersi chiuso nel mutismo e di averla trattata come un mobile di casa. – Da Monaco in dicembre Puccini scrive tre lettere a D’Annunzio circa i loro progetti (mai realizzati) di scrivere un’opera insieme. D’Annunzio doveva certamente sapere della von Stengel, perché nella seconda lettera lei aggiunge un poscritto in tedesco firmato Josi per ringraziare del regalo di un libro con dedica. E Puccini nella terza lettera dice che mentre sta scrivendo, una mano gli sta accarezzando i capelli; aggiunge anche di non parlare di lei nelle lettere dirette a Torre del Lago, che evidentemente potevano essere intercettate da Elvira.

Come con Cori Elvira impiega solo qualche mese a scoprire la tresca. Secondo Marotti qualche spia andò a riferirle i movimenti viareggini della coppietta. Per cui Marotti narra che ad un convegno amoroso nella macchia di Migliarino, dove Puccini di solito cacciava il fagiano, intervenne inattesa anche Elvira. E, commenta Marotti, "la fagiana fu spiumata". Nel bis di un episodio quasi identico con la Cori dieci anni prima, un altro incontro in pineta vide nuovamente l'intervento di Elvira e la von Stengel ebbe naturalmente la peggio ("stesso spartito, cambia la cantante"). Mi sovviene qui che secondo Vincent Seligman (il figlio di Sybil) che la conobbe da bambino, le mani dell’Elvira erano particolarmente ampie e pesanti. E probabilmente la baronessa non aveva l’abitudine dell’Elvira al combattimento.

Come con la Cori Puccini troverà la maniera di portarsela in casa a Torre del Lago mentre Elvira non c’era perché Puccini era un grande seduttore, ma italiano e quindi la casa è sempre la casa. Sembra che ad un certo punto, in una ulteriore ripetizione del caso Cori, Puccini la abbia anche fatta sorvegliare a casa sua da un detective senza che emergesse nessun carico.

Nel 1913 lei divorzia dal marito, l’atto assegna la colpa a lei e le bambine quindi vengono affidate a lui. Nella tradizione di famiglia sembra che il marito fosse piuttosto geloso, li facesse spiare e dopo il divorzio insistesse per sfidare Puccini a duello; nei racconti di Marotti c’è un marito, non meglio specificato di chi, che sfida Puccini a duello ma ovviamente Puccini non ci pensa neanche lontanamente ad accettare la sfida. Josephine spererà a lungo che anche Puccini divorzi dall’Elvira per sposare lei; in Italia il divorzio non esisteva ma Alberto Franchetti, altro compositore della scuderia Ricordi, era riuscito a divorziare in Germania da un matrimonio italiano. Possiamo lecitamente credere che la speranza di un matrimonio gliela abbia messa in testa Puccini. Una speranza impossibile. Penso che, con tutta la sua gelosia e le sue scenate, l’Elvira fosse una parte essenziale del ménage di Puccini: la poteva tradire e poteva sopportare sportivamente la sua gelosia, a volte anche ridendoci sopra, ma rinunciare a lei e cambiare radicalmente vita gli sarebbe stato troppo faticoso. Non lo fece con Cori, non lo fece dopo il caso della Doria, non succederà neanche con la Josi.

Nel 1914 inizia la guerra mondiale e il marito della von Stengel viene richiamato al fronte, dove muore il 26 febbraio 1915. Le tre lettere di lei che ci sono rimaste si riferiscono esattamente a questo momento. Le bambine rimangono affidate al suocero, il divorzio ha creato un po’ di scandalo e lei non è in condizione di reclamarle e un avvocato la consiglia in tale senso. Puccini acquista il 31 marzo, di nascosto all’Elvira, un appezzamento di pineta a Viareggio dove costruire un nido d’amore per la Josi. Ma il 23 maggio l’Italia entra in guerra contro la Germania: lei diventa un soggetto nemico e non può più venire in Italia, lui non può più andare in Germania e anche il servizio postale diretto si interrompe. Qualche lettera può forse passare tramite un intermediario in Svizzera, territorio neutrale. Dato che i committenti di Rondine sono austriaci, quindi nemici anche essi, Puccini deve andare in Svizzera per incontrarli e probabilmente vede anche lei. Dato che Puccini scrive all’Elvira di non aver incontrato “quella persona”, probabilmente è vero il contrario.

In una notte che in famiglia si racconta come drammatica Josephine fa il colpo di mano. Rapisce le bimbe al suocero e le fa sparire in Svizzera; da novembre 1915 ottiene il permesso di soggiorno a Lugano dove rimarrà fino al 1919. Puccini ha conoscenze altolocate, ottiene un passaporto non facile da avere in tempo di guerra e può andare a visitarla regolarmente, più o meno una volta al mese, da Milano. Gli incontri di Puccini con una donna tedesca altolocata, figlia e vedova di militari, non passano inosservati, tanto più che si riferisce, probabilmente senza fondamento, che lei si incontri con altri ufficiali tedeschi e che sia una spia. Le bimbe vedono arrivare ogni tanto questa persona che chiamano Jacques, ma non sanno chi realmente sia. Puccini passa molte grane, viene sorvegliato dai servizi segreti e il console italiano a Lugano minaccia di fargli ritirare il passaporto. Schickling ha trovato una cartella a nome Puccini negli archivi del ministero dell’interno ed in essa è la copia dattiloscritta, effettuata da un ufficiale della censura di un innocuo messaggio di lui a lei. La busta era stata aperta con il vapore, la lettera (indirizzata a “Mucchietto” e firmata “Muccino”) copiata e poi richiusa. L’originale, ovviamente, sarà stato distrutto dalle figlie. Per merito di questa spiata abbiamo una copia di un’unica lettera sfuggita alla distruzione.

Secondo l’aneddotica, a cui Schickling non crede, Puccini trova un angelo custode nel commissario Raffaele Monaco, originario napoletano e distaccato al posto di frontiera di Chiasso. Monaco si convince rapidamente che gli incontri di Puccini sono di natura amorosa e chiude un occhio nonostante gli ordini che arrivano da Roma. Si narra che Monaco interrogasse Puccini una prima volta, raccomandandogli di trovarsi una amante italiana se proprio voleva e di piantarla con quei viaggi che destavano il sospetto. E Puccini avrebbe risposto “al c. non si comanda”. Dopo qualche tempo Monaco fu costretto a fermare nuovamente Puccini perché era arrivato un dossier relativo ad una lettera anonima che lo denunciava come spia. Secondo l’aneddoto, la lettera anonima era nella calligrafia di Elvira.

La relazione va avanti con queste difficoltà negli anni della guerra; paradossalmente, quando la guerra termina e la relazione potrebbe riprendere senza problemi organizzativi, invece va a morire. Nel 1919 la von Stengel ha finito i suoi soldi, Puccini la installa con le figlie e la mantiene, chissà perché, a Casalecchio vicino a Bologna; ma tronca la relazione quando dal parroco di Casalecchio arriva una segnalazione, anche questa probabilmente falsa, che la von Stengel si vede con un capitano dell’esercito italiano. Da lei arriva ancora qualche lettera, e, poco più tardi, la richiesta di un prestito di 10000 lire per impiantare un albergo a Bologna. Del Fiorentino riferisce che Puccini, in memoria di tanti bei momenti passati insieme, non può ignorare la richiesta e le invia 5000 lire non in prestito ma in regalo. Anche Gragnani, altro amico, parla di questo aiuto economico. E’ l’ultimo atto: non si sentiranno mai più. Nell'appezzamento di pineta a Viareggio viene costruito un villino, ma per Puccini e l'Elvira: sarà il luogo della stesura di Turandot. Negli ultimi anni il nuovo amore di Puccini è la cantante Rose Ader. La von Stengel apprenderà la notizia della morte di lui dai giornali.

Secondo i ricordi dei parenti, Josephine passa i suoi ultimi anni a Bologna, piuttosto duri perché l’inflazione tedesca ha fatto evaporare il patrimonio di famiglia. Dell’albergo non se ne farà niente. Trova un non meglio identificato Ferrari, assai benestante, che vorrebbe sposarla; lei non accetta ma Ferrari mantiene comunque lei e le figlie come un padre. Josephine muore di malattia renale nel 1926, a quaranta anni e neanche due anni dopo Puccini. Il Ferrari mantiene le due bambine fino a maggiore età; queste seppelliscono la madre in una semplice tomba a Bologna, ancora esistente, poi tornano in Germania.

Questi sono i fatti. La von Stengel oltre che alta e bella, era anche gentile, simpatica, colta, appassionata di musica, forte nell’affrontare i casi della vita e dolcissima con Puccini. In altre parole, tutto quello che Elvira non era. Le sue tre lettere del marzo 1915, dove immagina una vita quale sposa di Puccini – piccole cose, apparecchiare la tavola, stare insieme davanti al cambino - sono scritte in un italiano scorretto, a tratti trapattoniano, ma simpaticissimo. Confesso che per la loro innocenza e il sentimento di amore devoto non riesco a leggerle senza rimanerne commosso. Leggete anche voi ad alta voce un passo, aggiungete un lieve accento tedesco e vi sembrerà di sentirne la voce.  Lettera probabilmente da Stoccarda, il 24 marzo 1915.

“[…] Come vorrei stare con te! Mi arrabbio che non lo sono ed ora dove tu sei solo. Che bella occasione! Oh, Giacomo, come soffro per ciò. Non ho ancora notizie per le cose mie [le pratiche legali per l’eredità del marito e l’affido delle bambine]. Se io potrei andare da te o insomma subito da te senza cambiare l’abitazione, che bellezza sarebbe! Che felicità! Aspettiamo cosa vuole Dio! Ma io sono la tua, questo sì! Penso molto a te e con tanti dolci pensieri. Dio benedica te, me e aiuta noi! Sento un mondo d’amore per te e sento come mi ami anche tu! Ci siamo inseparabili. Lunedì ho le bambine - mi sento così sola qui! Se tu mi cercasti! Che bellezza! Raccontami un pò della vita che tu fai. Lo fai per me? Non guardi nessuna? Io penso a tante cose. Noi due, credi, ci stiamo in continuo torturo per tante cose inutile! Ma la premura d'essere insieme, diventa un vero torturo e poi vengono anche altri pensieri nella disperazione. Tu mi hai detto, che a Viareggio comprasti un terreno e vuoi far fare una villina! Non hai detto nulla ancora a nessuno? Spero; troverei che questa confidenza sarebbe ingiusto quando si vive in questi condizioni come ora. E tu lo farai per me! E poi speriamo che noi potremo abitare insieme in questa casetta! Lo vuoi? Che delizia sarebbe. Oggi danno Tosca a Monaco. Addio mio tesoro ti bacio tanto tanto la tua bocca e ti stringo teneramente al mio cuore. Tua Busci.”

Quando Josi scrive queste parole, l’Italia non è ancora entrata in guerra contro la Germania, ma dai giornali si capisce come andrà a finire e Josi lo sa benissimo. Solo una incrollabile ottimista avrebbe potuto scrivere qualche cosa del genere.