22/02/18

Sempre su Puccini. 22 febbraio 1900: una giornata da leoni


Una difficoltà della ricerca pucciniana è che la corrispondenza, quella che è stata pubblicata, è dispersa su numerosi libri. Magari lettere scritte nelle stesso giorno si trovano in diverse raccolte; ed è anche difficile rimettere in ordine cronologico i diversi materiali. La pubblicazione dell’epistolario completo, almeno per quello che è conosciuto, ovvierà a questo inconveniente, però siamo solo al primo volume saranno necessari anni prima di arrivare all’ultimo.
C’è una giornata di Puccini che viene citata più o meno in tutti i libri: giovedì 22 febbraio 1900. Il divertente è che ogni autore cita una diversa attività di Puccini, ma se le rimettiamo tutte insieme diventa una vera giornata da leoni. E’ anche interessante notare come, ricomponendo i pezzi del puzzle, possiamo seguire una giornata della vita di Puccini quasi ora per ora.
Il 22 febbraio si inserisce nel quadro della ripresa di Tosca a Torino dopo la produzione inaugurale a Roma in gennaio. Una cosa relativamente tranquilla, in quanto la compagnia di canto era la stessa della prima a Roma (14 gennaio), relativamente sperimentata, cambia solo il direttore d’orchestra. Nuovo direttore che, sappiamo dalla lettera del 14 febbraio a Nomellini citata in un precedente post, era piuttosto fiacco. Comunque Puccini segue l’allestimento di Torino a distanza, andando avanti e indietro in treno da Milano. La prima di Torino del 20 febbraio va abbastanza bene. 
Per capire i movimenti bisogna ricordare che Puccini ha sempre mantenuto una residenza a Milano, prima in via Solferino 27 e poi, dal 1901, in via Verdi 4 di fronte alla Scala. Questi due appartamenti erano in affitto a lungo termine. A Torre del Lago, Puccini ha abitato dapprima in affitto, ma nel 1899 acquista la villa che diventerà la sua residenza preferita. La villa non era in buono stato e furono necessario grossi lavori di ristrutturazione, più le decorazioni affidate ai pittori amici di Puccini – Pagni che stava a Torre del Lago dietro l’angolo, Nomellini che stava a Genova ma finirà per stabilirsi anche lui a Torre del Lago; e infine De Servi, lucchese ed amico di infanzia di Puccini, ma all’epoca anche lui residente a Genova. Puccini si stabilirà definitivamente nella villa restaurata nel marzo 1900, ma in febbraio fervono ancora i lavori che Puccini tenta di dirigere per lettera quando non è sul posto.
Sappiamo che il 21 febbraio Puccini è a Milano e la sera partecipa ad un un banchetto in onore di Giacosa; prendo questa notizia da un trafiletto de “La Stampa”. La mattina del 22 Puccini parte in treno per Torino, ma prima di partire trova il tempo di scrivere una lettera a Pagni il pittore; Puccini gli ricorda che il 15 marzo prossimo conta di installarsi nella villa e lo invita a sbrigarsi con la sua quota di decorazioni.
Poi Puccini sale in treno e scrive una cartolina a De Servi, impostata durante la sosta alla stazione di Novara. Dopo Novara, altre due cartoline scritte sul treno: una ancora a Pagni (dove scrive che “l’opera vile” era andata bene il 20 febbraio) e una a Mugnone, il direttore di Tosca a Roma. Il Magri nel suo libro su Puccini pone erroneamente queste cartoline come impostate nel viaggio di ritorno, ma dal contesto dell’intera giornata si capisce che sono state impostate all’andata. 
A Torino Puccini prende alloggio al Grand Hotel et Hotel d’Europe. Per prima cosa scrive, su carta intestata dell’albergo, all’ing. Puccinelli di Lucca che è quello che gli ha già ristrutturato la villetta di Chiatri e gli sta ristrutturando quella di Torre del Lago. Siccome Puccini era uno di quelli che arrivavano a lavori in corso e facevano spostare porte e chiudere finestre, salvo cambiare idea dopo poco e poi ancora cambiare idea, alla fine gli arrivavano conti del muratore esorbitanti e litigava sistematicamente con il Puccinelli. Anche perché nell’idea di Puccini, l’ingegnere avrebbe dovuto accontentarsi della gloria di lavorare per un grande compositore e non pretendere compensi. La lettera al Puccinelli è riportata dal Valleroni, che la ebbe dalla moglie dell’ingegnere, e tratta del pagamento di alcuni lavori e di alcuni leoni di pietra che dovrebbero essere ancora alla villa. Per la cronaca, sia pure brontolando, Puccini pagò sempre per intero i conti del Puccinelli.
Poi scrive una cartolina al Vandini Guido, un maestro collaboratore del teatro del Giglio a Lucca, solo poche parole; però da questa apprendiamo che Puccini non viaggia da solo ma con lui sono Elvira e Fosca (all’epoca una signorina di quasi venti anni) che salutano. (Questa cartolina finì nel fondo Del Fiorentino, che poi è finito a Montecatini ed è stato pubblicato da Pintorno)
Puccini scrive la seconda volta anche a De Servi: anche lui ha l’incarico di decorare una sala nella villa di Torre, e si deve sbrigare: il mese prossimo deve venire in visita Giacosa e serve la sala pronta (lettera riportata dal Marchetti nel suo libro, ma si trova anche nella corrispondenza completa con De Servi a cura di Simonetta Puccini). Possiamo indovinare che Puccini si sia messo d’accordo per la visita di Giacosa alla cena della sera prima (ma queste deduzioni sono possibili solo dopo aver ricostruito esattamente la cronologia).
Sempre in giornata ci sono due lettere a Raffaello Sardi e Raffaello Mansi delle quali ignoro il contenuto (ma ringrazio il centro studi di Lucca che me ne ha resa nota l’esistenza)
Secondo il Magri, sempre nello stesso giorno Puccini riceve in dono la foto con dedica di una importante ammiratrice, la duchessa Maria di Mecklemburg. Qui il vostro ricercatore ammette di avere una defaillance: il Magri non aveva Wikipedia e non aveva realizzato che i ambedue rami della famiglia Mecklemburg avevano dame di nome Maria, rispettivamente Maria di Mecklemburg-Strelitz, e Maria di Mecklemburg-Schwerin, quindi non specifica quale delle due. Sono entrambe personaggi interessanti: la prima rimase incinta giovanissima di un servitore che la aveva ipnotizzata, salvo poi sposare un banchiere che uccise suo fratello in duello; la seconda sposò un figlio dello Zar Alessandro II e fu protagonista di una clamorosa fuga dalla Russia nel 1920: mentre tutti gli aristocratici scappavano con qualsiasi mezzo e sotto traccia per non farsi prendere dai bolscevichi, lei da vera signora scappò con il suo treno personale coperta di gioielli. Non avendo visto la foto donata a Puccini, non posso dire quale delle due Marie fosse. Ad occhio e dopo aver consultato le cronache mondane del Corriere della Sera (la Stampa tace su questo) mi sembra che la prima dovesse avere una maggiore familiarità con l’Italia, per cui propendo per Maria di Mecklemburg-Strelitz ma con un punto di domanda.
Sappiamo da una recensione de “La Stampa” che i palchi del teatro Regio il 22 febbraio erano pieni ma la platea mezza vuota. Quindi una serata non troppo entusiasmante. Probabilmente in occasione della serata d’opera Puccini dona uno spartito di Tosca con dedica alla nobile signorina Amalia Luisa Casana. Questo dono ha provocato un qui pro quo: nella disperazione di non avere alcun indizio sull’identità di Cori, il grande amore torinese di Puccini, il Magri ipotizzò che potesse essere proprio la Casana. La grande segretezza dell’affare sarebbe dovuta alla necessità di non compromettere una fanciulla di una famiglia importante.
Il Magri, però, non conosceva ancora la lettera a Puccinelli sopra indicata, dalla quale apprendiamo che Puccini aveva già fissato un appuntamento con la vera Cori proprio per quella sera del 22 febbraio. Puccini infatti termina la lettera dicendo di non voler nominare una persona, perché “…ho paura che mi porti male stasera dovendo produrmi anche come maschio!” (maschio sottolineato)
Dal che deduciamo che dopo l’opera ci fu anche un felice epilogo con la Cori (se il conto è giusto, la seconda volta dopo quella del 14 febbraio, S. Valentino). C’è però una cosa che non torna in tutta questa storia: in albergo c’erano anche Elvira e Fosca come abbiamo accertato dalla cartolina al Vandini. Non chiedete con quale scusa Puccini abbia piantato in albergo moglie (o meglio, facente funzioni di moglie) e figliastra, prima o dopo la recita, per dedicarsi ai sublimi piaceri di Cori. Questo non sta scritto da nessuna parte.
Dopo questo exploit, di Cori si perdono le tracce per qualche tempo. Di sicuro la ritroviamo, e nominata come persona nota a tutti gli amici (maschi) di Puccini, a Torre del Lago nel week end del 2 giugno 1900: avendo ristrutturato la casa, Puccini non deve aver resistito alla tentazione di farla vedere alla nuova fidanzata approfittando di una assenza di Elvira. Ma quella visita piuttosto imprudente dette la partenza a tutta una catena di eventi che segneranno quasi quattro anni della vita di Puccini. Ne riparleremo a suo tempo.

16/02/18

La prima di Butterfly

17 febbraio 1904: Madama Butterfly cade clamorosamente alla sua prima al Teatro alla Scala. Dopo due prime a Torino e una a Roma, la Scala viene scelta per dare la nuova opera di Puccini, e il clamoroso insuccesso rimarrà negli annali del teatro.

I critici, il giorno dopo, trovarono vari motivi all’insuccesso; primo, il moltiplicarsi delle trovate di colore locale giapponese che diluiscono l’azione e che in seguito furono progressivamente eliminati. Secondo, il tema all’entrata di Butterfly fu giudicato troppo simile al quartetto della Bohème – e dalla versione di Brescia in poi Puccini inverte un paio di note di questo tema, ogni volta che si presenta, per cambiarne la fisionomia. Una terza critica è la più sostanziale e anche la più assurda: Puccini nel comporre usa dei motivi conduttori, ripetuti variandoli ogni volta, e con il quale il pubblico si familiarizza rapidamente; questo venne percepito come un espediente per risparmiare fatica quando invece è proprio il bello della composizione pucciniana – sembrerebbe quasi che per i critici si dovesse tornare indietro all’opera a numeri staccati, ognuno musicalmente indipendente. Quarta critica, la lunghezza eccessiva del secondo atto.

Ma per quanti difetti potesse avere la prima versione di Butterfly, non era comunque così brutta da giustificare zittii e rumori del pubblico tanto forti da coprire il suono dell’orchestra e un comportamento complessivamente incivile. Nessuno ha mai spiegato in maniera soddisfacente che cosa sia avvenuto, ma tutto lascia pensare a contestazioni preordinate. In un articolo non firmato ma probabilmente di Giulio Ricordi stesso, si sostenne che lo spettacolo in sala era stato organizzato con altrettanta cura di quello sul palcoscenico, tant’è vero che le contestazioni iniziarono dal primo minuto. C’è chi ha ipotizzato una gazzarra organizzata dalla Sonzogno, la casa editrice rivale di Ricordi, che fino a qualche anno prima aveva gestito in proprio la stagione della Scala con lo scopo di escludere i compositori Ricordi, e aveva anche rischiato il fallimento a causa della gestione teatrale; ma chi avrebbe davvero  organizzato la contestazione, questo non lo si è mai accertato. Se anche ci fosse stata una claque maldisposta e ostile, comunque anche il resto del pubblico perse ogni inibizione e partecipò alla gazzarra.

Il fiasco di Madama Butterfly si affianca al fiasco di Norma che pure ebbe un clamoroso insuccesso alla sua prima scaligera. Ora, so di toccare un punto sensibile e che alcuni amici che lavorano in quel teatro mi stanno leggendo; ma se la Scala in certi momenti della sua storia, segnatamente sotto Toscanini, ha toccato dei vertici che ne facevano il primo teatro del mondo sotto il punto di vista artistico, ha avuto pure nella sua storia lunghi anni di gestione mediocre e qualche infortunio di portata storica. Una cattiva messa in scena della Giovanna d’Arco nel 1845 indusse Verdi a lasciare la Scala, facendo addirittura aggiungere nel suo contratto con Ricordi una postilla: mentre la casa Ricordi poteva trattare le condizioni di rappresentazione con i singoli teatri in autonomia, per eventuali rappresentazioni alla Scala sarebbe stato sempre necessario l’assenso preventivo ed esplicito del Verdi. Verdi che tornò alla Scala solo nel 1869. C’è da dire che il Verdi era molto sensibile, e un paio di discussioni con una orchestra svogliata durante le prime letture del Don Carlos furono motivo sufficiente per non mettere più piede neanche all’Opera di Parigi.

Ma il caso del Verdi è diverso: la sua Giovanna d’Arco si era trovata in un momento di crisi generalizzata, soprattutto economica, della Scala e questo aveva avuto peso nella sciatteria delle rappresentazioni. Diverso è il caso di Norma e Butterfly, di pubblici che ad onta di compagnie eccellenti e rappresentazioni curate rifiutano di apprezzare lavori che le generazioni a venire definiranno geniali. Questo fa parte del mistero e anche del fascino del teatro: per il modico costo di un biglietto, si compra il diritto di dissentire, ma eventualmente anche di rendersi ridicoli agli occhi della storia.

Un critico (Achille Tedeschi detto Leporello) osservò che Puccini, nel ritirare immediatamente l’opera dalle scene all’indomani della infelice prima, le aveva tolto la possibilità di rivincita: anche la Norma inizialmente fischiata aveva poi avuto trentatré recite applaudite; e che il pubblico della Scala si sarebbe rapidamente ricreduto nei confronti di una Butterfly che poteva avere qualche difetto ma era il frutto di una ispirazione sincera. Io penso che il pubblico intero – e non solo la claque – si sia comportato in maniera così villana e indisponente da non meritare un secondo appello; e si noti che il ritirare lo spartito volle dire per gli autori rinunciare a 20000 lire di anticipo (in termini odierni, diciamo qualcosa come 800mila euro) e per la Scala scompaginare completamente il calendario - quindi anche se rapida non fu decisione presa alla leggera.

Un dettaglio della sera spesso viene male interpretato. Un movimento brusco causò il gonfiarsi del costume di Butterfly – Rosina Storchio – e una voce dal loggione urlò: Butterfly è incinta. Su questo diversi commentatori hanno romanzato, ma il significato è chiaro. La Storchio non era incinta al momento della recita, ma l’anno precedente in gran segreto aveva avuto un figlio da Toscanini. Il povero bambino era handicappato e morirà a 16 anni. La battuta non voleva colpire Puccini ma la Storchio e Toscanini.

In realtà Puccini alla Scala non aveva avuto vita facile neanche in precedenza. Un allestimento di Bohème nel dicembre 1900 non era stato fischiato ma aveva lasciato completamente freddo il pubblico – nonostante ci fosse sul podio Toscanini e il ruolo di Rodolfo fosse l’esordio di Caruso alla Scala; Caruso che peraltro non stava bene. Per quando Caruso fu guarito e l’opera applaudita, Puccini se ne era già tornato a Torre del Lago a spegnere il nervoso con la caccia. Memore anche di una Tosca scaligera sempre nel 1900, Puccini parlava del pubblico di quel teatro come di un “superpubblico” che evidentemente non apprezzava anche lavori che altrove riscuotevano grandi successi.

Dopo il fiasco di Butterfly, Ricordi presentò alla Scala le opere di Puccini con estrema prudenza. Negli anni in cui il Puccini era il compositore italiano di punta, ne furono date solo quattro opere dal 1904 al 1921, e cinque allestimenti dal 1922 al 1924 cioè sotto Toscanini. Dopo la disastrosa prima del 1904, la seconda recita di Butterfly alla Scala fu nel 1925 con Toscanini ed il pubblico non potè esimersi dall’applaudirla. Ma Puccini non c’era già più.

Questo non vuol dire che le opere di Puccini non si dessero a Milano: Butterfly fu ripresa già nel 1905 al teatro Dal Verme. Nelle principali città i teatri d’opera erano più di uno e capitava non di rado che il secondo teatro avesse un repertorio più progressista del primo; non necessariamente il teatro maggiore era il migliore ed il più aperto alle novità, anzi. A Parigi Puccini arrivò quasi a monopolizzare l’Opera Comique prima di essere preso in considerazione all’Opera.  A Vienna Puccini arrivò molto prima al Theater an der Wien; e all’opera di corte (quella che adesso è la Staatsoper) solo dopo l’abbandono di Mahler che non lo aveva simpatia. – E passato Mahler, salvo la forzata interruzione della guerra mondiale, l’opera di Vienna divenne uno dei teatri preferiti di Puccini e Puccini uno dei preferiti del pubblico.

Dopo l’insuccesso alla Scala, Puccini allestì una seconda versione dell’opera per Brescia, con numerose modifiche. Il secondo atto, troppo lungo, fu spezzato in due. Molte cose furono tagliate, alcune aggiunte, altre modificate. Il motivo che ricordava un po’ Boheme fu modificato nel contorno melodico. Ma non fu nemmeno questa la versione definitiva; Puccini continuò a sperimentare, togliendo ed aggiungendo episodi nei vari allestimenti; difficile anche solo tenere il conto di queste versioni. La versione finale, quella che si sente oggi, è una ulteriore versione, quella del 1906 per l’Opera Comique di Parigi. Nell’occasione la prima donna era la moglie del sovrintendente Carrè e Puccini le aveva assegnato, pentendosene subito dopo, l’esclusiva per la Francia su alcuni dei suoi titoli per un certo periodo. Madame Carré era un soprano passabile ma non eccezionale – Puccini l’aveva soprannominata “Madame Pomme-de-terre” (patata); non poteva ovviamente essere sostituita, e suo marito chiese fin dal principio un certo numero di tagli temendo che la signora non riuscisse ad arrivare alla fine dell’opera. In passato Puccini avrebbe fatto fuoco e fiamme, ma incredibilmente Puccini e Carrè si misero d’accordo sulla nuova versione in un solo pomeriggio, probabilmente perché Puccini aveva già sperimentato molti possibili tagli nelle diverse riprese ed era arrivato lui stesso alla conclusione che Butterfly dovesse essere scorciata. Mentre la Butterfly milanese, e anche quella di Brescia in minore misura, era un’opera sullo scontro fra due mondi, quello giapponese e quello occidentale, che non si capiscono, la Butterfly parigina, che poi sarebbe la nostra, è il dramma di una donna schiacciata dal precipitare degli eventi ma che non rinuncia alla sua dignità: con onor muore chi non può serbar vita con onore.

Carrè, a dire il vero, chiese delle modifiche non solo per facilitare il ruolo della moglie ma anche convinto di dare maggiore intensità allo spettacolo. Per esempio, la grande aria di Butterfly nel secondo atto prima di Parigi narrava di un sogno di Butterfly che vedeva suo figlio alla corte dell’imperatore. Fu Carrè a chiedere che fossero cambiate le parole. Le parole furono cambiate, retrospettivamente, anche nella versione italiana (“E Butterfly, orribile destino, danzerà per te”) e sono diventate quelle definitive: qui capiamo che il destino finale di Butterfly è la morte, non potendo accettare il destino che le circostanze vorrebbero imporle.

C’è chi sostiene che da nessuna parte Puccini designa la versione di Parigi come definitiva. Di fatto, si stancò di modificarla ed accettò che diventasse definitiva.

Un’ultima osservazione. Butterfly è una delle opere più amate dal pubblico, ma ha conquistato lentamente questo status. Lo stesso Giulio Ricordi non credeva realmente nelle potenzialità dell’opera e la credeva un passo indietro rispetto a Bohème e Tosca, quando invece la storia ci ha dimostrato che è un’opera che ha le stesse potenzialità, se non maggiori, delle sue sorelle. In prima lettura, Ricordi aveva approvato il soggetto anzi se ne era detto talmente commosso che alla prima lettura non era riuscito a dormirci sopra di notte. Ma nella realtà avrebbe preferito una realizzazione più tradizionale dell’opera – a lui lo schema di Illica in tre atti con l’atto del consolato nel mezzo sarebbe andato più che bene, e lo schema in due atti con il secondo atto lungo non lo convinceva – sarebbe stata infatti una causa dell’insuccesso della Scala. Aggiungiamoci poi la questione personale con Puccini, che aveva perso la testa per la giovane Cori, mentre Ricordi era convinto che quella relazione lo portasse alla rovina umana ed artistica. Questa crisi dei rapporti fra il signor Giulio ed il signor Giacomo penso che non sia stata mai superata, tanto più che Butterfly ha avuto, dopo il botto iniziale, un avvio positivo ma lento con il pubblico. Ancora a fine 1906, Ricordi poteva lamentarsi con Puccini che le entrate di Butterfly non avevano ancora pareggiato le spese – e questo era anche un implicito rimprovero a Puccini che anziché scrivere musica andava troppo in giro a seguire gli allestimenti, spendendo un sacco di soldi di spese di rappresentanza. Ricordi era convinto che Puccini dovesse riscattarsi scrivendo un bell’operone grandioso di soggetto storico, per esempio una “Maria Antonietta” che l’Illica cercò di sceneggiare in tutti i possibili modi; o un bel drammone su libretto di D’Annunzio, ipotesi che pure non andrà mai in porto.

Insomma, sia che la vediamo dal punto di vista della vicenda personale, che dal punto di vista artistico e professionale, Butterfly di fatto chiude un capitolo della vita di Puccini. Puccini non ne esce bene: dopo Butterfly, terminata fine dicembre 1903, ricomincerà a scrivere musica nel 1908.


28/01/18

Il caso Doria Manfredi

Dopo cinque giorni di agonia, il 28 gennaio 1909 muore Doria Manfredi ex domestica di casa Puccini che si era avvelenata il 23. A volte si riporta la data del 29 che fu erroneamente indicata sulla lapide di lei.

A differenza di quello che si legge nei libri, non mi sembra che l’episodio creasse un grande scandalo sulla stampa. Qualche articolo quando avvenne il fatto e qualche articolo sei mesi più tardi in occasione del processo ad Elvira. Se lo scandalo fu grande fra la gente di Torre del Lago, mi sembra di cogliere che i giornali che riportarono la notizia lo fecero sempre in tono tale da proteggere la figura di Puccini. Ho provato a leggere un po’ di giornali del 1909, che fra l’altro sono molto più piacevoli dei quotidiani di oggi; le questioni che imperversavano erano i postumi del terremoto di Messina (28 dicembre) con le diverse città d’Italia che facevano a gara per accogliere i profughi, o anche il rifiuto del governo austriaco ad autorizzare una università italiana a Trieste. Le non molte citazioni del caso Doria sono equilibrate da altrettanti tentativi di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla scrittura de “La Fanciulla del West” piuttosto che sui casi familiari del maestro.

Quello che è interessante è come i biografi di Puccini hanno riportato il caso Doria Manfredi.  Esiste una immagine ufficiale di Puccini che è quella tramandata dalla pubblicistica ufficiale sotto l’egida di Ricordi (Paladini e Adami, ma anche l’epistolario di Gara); immagine che poi è quella che era più gradita alla famiglia per ovvi motivi. In questa immagine la vita privata di Puccini non esiste, o al massimo è ridotta a qualche simpatico ed innocuo episodio. Nelle biografie ufficiali e in tutto quello che è stato pubblicato sotto l’egida della Ricordi, Doria Manfredi non è mai esistita. L’epistolario di Adami del 1928 salta gli anni 1908-09. La raccolta di lettere ben più ampia e comprensiva di Gara, che pure fu pubblicata nel 1958, cataloga il caso Doria, della quale non si fa nome né si racconta la vicenda, sotto generici “dissapori familiari”. Negli anni trenta - quindi a breve termine dalla scomparsa di Puccini -  l’unico che parla della morte di Doria Manfredi è Vincent Seligman nel suo libro, che però in Italia non fu mai né tradotto né pubblicato; non solo Vincent aveva personalmente conosciuto Doria in occasione delle visite alla famiglia Puccini, ma aveva in mano lettere di Puccini a sua madre Sybil Seligman molto esplicite e tali da capire perfettamente che cosa fosse successo. Nel pubblicarle (1938) scelse di tutelare in parte la figura di Elvira, anche lei recentemente scomparsa e soprattutto la figura di Fosca che era viva e vegeta, tagliando la maggior parte dei riferimenti. Solo recentemente si sono avuti i testi integrali di alcune lettere di Puccini alla Seligman che Vincent aveva sforbiciato, dalle quali risulta chiaro il ruolo di Fosca nel montare la fatale gelosia di Elvira contro la serva. A parte l’accertamento della causa ultima, Seligman racconta la storia di Doria con le parole di Puccini medesimo e con sostanziale fedeltà ai fatti. Ma negli anni trenta fu l’unico.

Di Doria nessuno parla più fino al 1951, quando esce nei paesi anglosassoni la biografia di Marek. Questi aveva chiaramente capito che la famiglia (nelle persone di Fosca Gemignani e Rita dell’Anna, vedova di Antonio Puccini) aveva un interesse nel tacere la vicenda, e più che per tutelare la memoria del maestro per nascondere i ruoli ambigui dei suoi familiari, ma si documenta andando a ricercare gli atti del processo ad Elvira, che presenta in forma estesa. E soprattutto Marek afferma la volontà di ricostruire la figura di Puccini a tutto tondo, non nella forma artefatta delle biografie ufficiali e dei ricordi di famiglia che sono stati deliberatamente alterati.

Non sono riuscito a determinare quale sia il primo testo in italiano a nominare Doria Manfredi. Secondo me è il libro di Sartori che uscì nella prima edizione nel 1958. Non che ne tratti diffusamente, una mezza paginetta, ma credo sia il primo a farlo in italiano. Sono stati necessari cinquanta anni dal fatto e trentaquattro dalla morte del maestro per vedere il tabù cadere. Nello stesso anno esce a Londra la biografia di Carner, tuttora una delle più valide, che però verrà tradotta in italiano solo nel 1961, e da allora l’episodio di Doria Manfredi viene considerato integrale alle biografie di Puccini. Mi risulta peraltro che lo scarso gradimento della famiglia nei confronti di chi si occupa di Doria sia arrivato fino alla recentemente scomparsa Simonetta Puccini.

Una domanda che mi viene rivolta spesso è: come andò realmente fra Puccini e Doria? Difficile da dire: la Doriologia è uno studio boicottato, i protagonisti stessi hanno occultato i documenti, e molto spesso ci si basa su chiacchere di paese riferite a distanza di decenni dalla loro origine. Forse solo negli anni a venire si potrà fare un po’ di chiarezza.

Come è noto, Doria nel morire chiese essa stessa di essere sottoposta ad esame medico; il medico condotto dott. Giacchi, che l’aveva curata, ne attestò lo stato di verginità. Dato che il Giacchi e Puccini erano molto familiari, il Giacchi era stato addirittura testimone nel matrimonio quasi segreto fra Puccini e Elvira del 1904, qualcuno ha ipotizzato che il responso medico sia stato addomesticato per scagionare Puccini addossando tutte le colpe ad Elvira. Anche se la cosa non si può escludere del tutto, io non mi sento di sposare questa tesi. Il Giacchi fu chiamato ad esprimersi in via ufficiale come testimone nell’istruttoria del processo, e bisognerebbe presupporre non un semplice addomesticamento ma addirittura una falsa testimonianza giudiziale. E come il Giacchi era familiare con Puccini, altrettanto lo era con Elvira. (Si narra che una volta l’Elvira pigliasse la fissazione di far tagliare i capelli ad una bambina che giocava insieme alle sue nipotine figlie di Fosca, adducendo motivi di salute. La madre della bimba andò a chiedere al dottor Giacchi se era davvero necessario tagliare i capelli della bambina, e il Giacchi rispose che l’unica cosa da tagliare sarebbe stata la lingua dell’Elvira.)

Dato però che fra un amore con consumazione di rapporti sessuali e l’assoluta indifferenza ci sono molti stadi intermedi, io personalmente ho motivo di credere che almeno in un certo stadio Puccini si fosse effettivamente invaghito della Doria – invaghito alla sua maniera, cioè con una importante sfumatura di rincoglionimento amoroso - e che l’Elvira se ne sia accorta. Questo non vuol dire che la Doria corrispondesse al sentimento del suo padrone, probabilmente no, di certo non apertamente; ma il suo allontanamento dalla casa sarebbe stato comunque necessario, se non per colpa di lei per debolezza di lui. Il guaio è che Elvira non si accontentò di far uscire di casa, a torto od a ragione, la causa della disputa; pretese il completo annientamento della ragazza e questo semplicemente non poteva essere. Si può intuire che le discussioni fra Puccini ed Elvira in merito a Doria siano arrivate fino allo scontro fisico; il Marchetti trovò a casa di Ramelde Puccini un frammento di scritto dove Elvira lamenta che Puccini arrivò a darle un pugno. Per motivi che mi rimangono misteriosi Marchetti attribuisce questo frammento al caso Cori, quando è evidente che si riferisce al caso Doria perché vi si cita “una servaccia”. Per cui, anche se sarei tentato di definire come inescusabile il comportamento di Puccini che fugge a Roma abbandonando il campo, e di fatto abbandonando Doria alle fauci di Elvira nei tre ultimi giorni prima del suicidio, tuttavia non posso neanche fare a meno di pensare che Puccini le abbia tentate di tutte per dominare la rabbia di Elvira e che alla fine abbia gettato la spugna per manifesta impossibilità.

Secondo il Marek, che poi è l’unico autore che per una circostanza irripetibile ha potuto esaminare una abbondante parte della corrispondenza fra Elvira e Puccini, la gelosia di Elvira e la paura di essere abbandonata si manifestano già dal 1891, in pratica da cinque/sei anni dall’inizio della loro relazione,  quando ancora Puccini non era un autore di successo e i dubbi sostanzialmente ingiustificati. A Marek sembra di vedere un certo raffreddamento fra Puccini ed Elvira prima del 1900, segue poi la vicenda di Cori che dura quattro anni. Elvira ne esce trionfatrice, che l’odiata rivale è costretta a sparire ingloriosamente e Puccini a regolarizzare la sua unione con lei. Ancorchè finalmente coronato dal matrimonio, il loro rapporto però ne esce a pezzi, fra di loro non c’è più alcuna fiducia; come completamente a pezzi ne esce Puccini. Complice anche la morte di Giacosa che spezza il dream team che ci aveva dato Bohéme, Tosca e Butterfly, Puccini dal 1904 non ha più voglia di scrivere musica né riesce a trovare un soggetto che lo soddisfi, tanto che dal 1904 al 1907 incluso la sua attività di compositore è praticamente nulla. Quando finalmente riesce a concentrarsi su La Fanciulla del West, la storia di Doria cade come una mazzata su di lui, costringendolo ad abbandonare il lavoro per quasi un anno. Con dei riflessi amari, come quando in una lettera a lungo censurata alla Seligman, confessa il peso di dover lavorare su un libretto scritto da un assassino, perché attribuisce a Civinini librettista di Fanciulla un ruolo nella tragica fine di Doria.

Non so se sia più grave la crisi Cori o la crisi Doria. Se la seconda ha fatto una vittima, la prima probabilmente ne è stata il necessario presupposto – senza lo stress indotto in Elvira dalla presenza dell’amante piemontese, probabilmente il loro rapporto non sarebbe degenerato tanto profondamente. Per Puccini la morte di Doria fu un trauma durissimo. In più di una lettera Puccini accenna alla possibilità dei suicidio, anche se per crederci occorre un atto di fiducia da parte del lettore. L’atteggiamento di Elvira, che mai ammise di aver avuto torto, certo non aiutava; forse solo la concreta paura di finire davvero in galera la indusse a ragionare un poco. La sentenza di primo grado che la condannava a cinque mesi di reclusione e a una forte multa, oltre a rinviare a successivo procedimento per determinare l’indennizzo ai parenti della vittima, escludeva espressamente la condizionale per rimarcare il disastro di una linea difensiva che non ammetteva colpe a fronte di testimonianze schiaccianti. Elvira non si presentò al processo lasciando che fossero gli avvocati a difenderla, e forse fu meglio così, che se i giudici l’avessero sentita dal vivo l’avrebbero trattata anche peggio. Ma Elvira non fece un giorno di galera; dopo la prima sentenza, riconosciuta ufficialmente l’innocenza di Doria e la persecuzione di cui era stata vittima, i parenti si accontentarono di un risarcimento e ritirarono la querela. Come osserva acutamente Seligman figlio, dopo tutto quello che era successo e con parenti, amici, avvocati e Ricordi che premevano per la liquidazione definitiva di Elvira, Puccini pagò di tasca sua per salvarla e riaverla in casa. Un maligno potrebbe osservare che l’atto di separazione che Campanari, avvocato di Ricordi, propose tra Elvira e Puccini e che Elvira non volle firmare, prevedeva un assegno di mantenimento di 12000 lire annue, incluso l’affitto dell’appartamento di Milano dove Elvira si sarebbe stabilita. Tutto sommato, con il risarcimento della famiglia Manfredi, che tradizionalmente si individua in 12000 lire una tantum, Puccini ci avrebbe risparmiato non poco. E’ evidente che Puccini non poteva comunque fare a meno della presenza di Elvira, tuttavia i rapporti fra di loro presero una parvenza di normalità solo molti anni dopo, dopo il 1922.

Io ho una teoria sulla quale forse un giorno riuscirò a lavorare più estesamente, e cioè che i librettisti di Puccini talvolta imitassero nei loro versi quelle che erano espressioni che lo stesso Puccini usava – sempre ammesso che non fosse Puccini a sostituirsi ai librettisti scrivendo lui stesso i versi. Per esempio, l’espressione “penna infame” per indicare una penna che non scrive che troviamo nella Bohéme, si trova già in una lettera giovanile di Puccini alla madre. Io non mi ricordo altro usi di questa espressione: mi piace pensare che fossero ipsissima verba di Puccini, e che Illica e Giacosa li abbiano infilati nel libretto per fare il verso a Puccini.

In questa ottica, non mi dispiace pensare che qualche cosa di Doria sia rimasto nella figura di Minnie. Puccini lo scrive apertamente a Ricordi un paio di volte. Ma, alla fine, come era Doria ce lo racconta Minnie stessa:

Non so, non vi comprendo.
Io non son che una povera fanciulla
oscura e buona a nulla:
mi dite delle cose tanto belle
che forse non intendo...



27/01/18

Il testamento di Verdi

27 gennaio, giornata importante per la storia della musica. 1756, nasce Wolfgang Amadeus Mozart. 1901, muore Giuseppe Verdi. Della nascita di Mozart mi occuperò l’anno prossimo (promesso!), per quest’anno parliamo di Verdi. Suggerisco di leggere il suo testamento che si trova a http://www.musicaprogetto.org/2014/06/testamento-olografo-di-giuseppe-verdi.html

Leggetelo, perché è il testamento di un grande uomo, e di quello che all’epoca era probabilmente l’uomo più ricco d’Italia.

Qualche chiave di lettura:
1.     per avere una idea del potere d’acquisto della lira, la villa Puccini di Torre del Lago, acquistata a fine 1899 fu pagata diecimila lire. Era un ottimo prezzo perché in cattive condizioni e dovette essere ristrutturata, ma serve per rendere l’idea che diecimila lire del 1900 fossero il prezzo di una villa di due piani in campagna, in un posto non particolarmente felice e in non buone condizioni. Diciamo 400/500mila euro di adesso? E’ il legato che viene lasciato a tre opere pie e a un domestico fedele.

2.     Mentre tutti sanno della costruzione della casa di riposo per musicisti a Milano, non tutti sanno che in precedenza Verdi aveva fatto costruire a sue spese l’ospedale di Villanova d’Arda, dotandolo di alcune proprietà per finanziarne il funzionamento. L’ospedale viene ricordato anche nel testamento.

3.     Alla casa di riposo di Milano rimane il lascito più importante, cioè i diritti d’autore sulle opere che durarono fino  agli anni sessanta (il termine venne prolungato con una legge ad hoc).

4.     Sia per l’ospedale di Villanova che per la casa di Riposo, Verdi si preoccupa non solo di costruire la strutture ma anche di dotarle di un capitale, la cui rendita consenta di finanziare le operazioni della casa. Un concetto completamente estraneo alla mentalità degli amministratori pubblici del giorno d’oggi. Ci si chiede se questi ultimi abbiano fatto il corso alla alta scuola di amministrazione di Topolinia.

5.     Il credito di duecentomila euro verso la Ricordi si riferisce alla trasformazione di questa da azienda familiare a società, passaggio che venne finanziato, in una curiosa inversione di ruoli, dall’autore di maggiore successo della società e cioè Verdi.

6.     L’avvocato Campanari era anche quello che curava gli affari legali della Ricordi. Nel 1909 lo troveremo quale estensore dell’atto di separazione fra Elvira e Giacomo Puccini a seguito della vicenda Doria Manfredi, atto che non venne mai firmato (ne riparleremo).

7.     La famiglia Carrara tuttora possiede sia la villa di Busseto che i documenti personali di Verdi. La villa di S.Agata in effetti è rimasta, almeno gli ambienti che si possono visitare, come era ai tempi di Verdi e lascia l’idea che il proprietario sia temporaneamente assente ma che potrebbe anche tornare da un momento all’altro. Forse domani.

8.     Le righe migliori sono le ultime. Verdi morì nella notte e il funerale di terza classe fu tenuto nella chiesa di S. Francesco di Paola, grosso modo di fronte al Grand Hotel et de Milan dove Verdi morì nella camera 105, all’alba e senza musica. Naturalmente il funerale ufficiale modestissimo come da richiesta del defunto non soddisfò nessuno,  e il mese successivo si fece il grandioso trasporto della salma alla tomba nella casa di riposo, con musica diretta da Toscanini e folla tale che occorsero 11 ore al carro funebre per traversare la città dal cimitero monumantale a via Buonarroti.

9.     Non era un caso che Verdi morisse nella camera 105. Quando andava a Milano soggiornava sempre nella camera 105 del Grand Hotel et de Milano, di proprietà della famiglia Spatz. La figlia degli Spatz, Olga, sposò Umberto Giordano e siccome in Italia tutte le cose si fanno in famiglia, questa fu l’occasione per Giordano per mettersi sotto la protezione di Verdi.


10. L’ultimo pensiero fu, comunque, per i poveri di Busseto.